lunedì 18 dicembre 2017

IL RITORNO DI KINOWA


Kinowa è un western italiano datato anni Cinquanta che, in questi giorni di politically correct venato di sottile vigliaccheria, viene coraggiosamente riproposto in edicola nonostante temi forti e personaggi avvolti in un’aura di violenza.
Lo sceneggiatore Andrea Lavezzolo, infatti, all’epoca creò un protagonista sanguinario, a tratti persino schizofrenico, alla ricerca di vendetta. Si tratta di Sam Boyle, un uomo bianco scalpato dagli indiani Panie (che gli uccidono anche la moglie e rapiscono il figlioletto), intenzionato a mettere in atto una sanguinosa vendetta. Indossata una tenebrosa maschera da diavolo, con tanto di cornini, e assunto il nome di Kinowa, Boyle diventa un accanito massacratore di pellerossa, dando il via a molteplici avventure dove male e bene hanno toni sfumati. Anzi, a volte ci si chiede se esista il bene.
Se Lavezzolo ne scrive le storie, a creare graficamente Kinowa pensa il trio di artisti noto come EsseGesse, formato da Pietro Sartoris, Dario Guzzon e Giovanni Sinchetto. I tre, che nel giro di pochi anni diverranno una vera e propria “fabbrica” del fumetto, non amano però la serie. Si trovano infatti a disagio nel rappresentare un personaggio crudo e spietato come Kinowa e decidono di dedicarsi ad altro. Così, l’aspetto grafico di Kinowa passa a Pietro Gamba, ma solo nei prossimi numeri di questa ristampa i lettori potranno apprezzarne il lavoro.
La figura di Sam Boyle è una delle più drammatiche del fumetto italiano del tempo. Già il suo aspetto incute timore. Scotennato dagli indiani, mostra cicatrici una testa pelata atipica per un eroe del vecchio West, ma la sua immagine diventa persino orrorifica una volta indossata la luciferina maschera di Kinowa. Un nome che, nella finzione narrativa, nel dialetto degli indiani Crow significa “lo Spirito che Cerca lo Scalpo Perduto”. Sarà per questo che gli indiani che finiscono tra le sue mani vengono scalpati a loro volta. Kinowa diventa in tal modo una figura mascherata tragicamente nota a tutti i pellerossa, dal Dakota all’Arizona, dall’Arkansas all’Oklahoma.
La serie mostra quindi una fusione di generi e tematiche interessante e innovativa. Il western tipicamente italiano si contamina con un pizzico di horror, mentre la maschera di Kinowa e la sua quasi invincibilità ricordano i supereroi americani, anche se totalmente spogliati del classico buonismo del filone. Inoltre, nel corso degli episodi, si scopre che il figlio di Kinowa in realtà non è morto, ma adottato dai pellerossa è divenuto uno di loro e, ignaro delle proprie origini, brama di uccidere Kinowa per vendicare il suo nuovo popolo. Uno scontro padre-figlio, inconsapevoli di tale legame, che ha il sapore della tragedia, che può ricordare drammi shakespeariani o anticipare cinematografici kolossal futuri come Star Wars.
Certamente non son tutte rose e fiori. La serie ha quasi settant’anni, e si vede. La narrazione è spesso soffocata da verbose didascalie (un tempo molto più utilizzate di oggi) e i disegni sono frutto di un tratto pesante che fatica a trovare respiro nelle piccole vignette. Eppure, se non ci si lascia scoraggiare del difficile approccio, si scoprirà che questo fumetto venuto dal passato ha ancora qualcosa da dire. Semmai, guardando le bellissime copertine, ridisegnate in tempi odierni da Michele Benevento, ci si poterebbe chiedere quanto ancora poterebbe essere oggi popolare la serie se rinarrata e ridisegnata con tecniche più moderne dando vita a un reboot, come direbbero i cinefili, più in linea con questi angoscianti anni Duemila di quanto non lo fosse negli anni Cinquanta della ricostruzione.


Andrea Lavezzolo, EsseGesse
Kinowa
Edizioni IF
pp. 96
euro 2,90

domenica 17 dicembre 2017

WAKI YAMATO IN MOSTRA


Ancora per pochi giorni, presso lo Yayoi Museum di Tokyo (vicino al parco di Ueno e al quartiere universitario) sarà presente la mostra dal titolo “Haikara-san ga Toru (Mademoiselle Anne): Taisho Girls & The World of Waki Yamato!”, caldamente consigliata a chi apprezza gli shojo manga.
Waki Yamato (classe 1944) è una della autrici manga più apprezzate in Giappone. Ha debuttato nel 1966 con la storia breve “Dorobo tenshi”, dimostrandosi molto prolifica e realizzando numerosi titoli uno dietro lʼaltro. Dopo essersi dedicata a storie brevi o volumi autoconclusivi, nel 1972 ha dato vita alla sua prima serie lunga, “Mon Cherie CoCo”, che è stata trasposta anche in una breve versione animata. Ma è nel 1975 che vede la luce il suo manga più famoso: “Haikarasan ga tooru", noto in Italia come “Mademoiselle Anne” o come “Una ragazza alla moda”. Ambientato nellʼepoca Meiji, ovvero allʼinizio del Ventesimo secolo, il manga unisce dramma e umorismo narrando le vicende della simpatica ragazza che lotta per la propria emancipazione. Nel Giappone del 1916, in un periodo di grandi cambiamenti sociali, la giovane Hanamura Benio si distingue dalle coetanee per le sue idee moderne, in contrasto con le regole imposte dal tradizionale maschilismo. Per niente remissiva, la ragazza scopre però di essere promessa in sposa fin da bambina a un giovane sottotenente dell’esercito imperiale, un uomo molto affascinante. Nonostante i tentativi di ribellione, Benio deve fare i conti con i sentimenti. Waki yamato, attenta alla realtà storica, inserisce nelle tavole riferimenti alla moda e alle abitudini del tempo. Così la protagonista e le altre ragazze indossano kimono in modo inusuale e si spostano in bicicletta, sottolinenando il periodo di passaggio storico e la transizione del Giappone da Oriente a Occidente, pur rimanendo fortemente tradizionalista. Aspetti sottolineati dalla mostra che, oltre a bellissime tavole originali del manga e a colorate illustrazioni, espone bici e abiti del tempo, dando forma al contesto storico.
Altre tavole esposte sono dedicate alla seconda opera più nota della Yamato, “Asaki yume mishi”, iniziato nel 1979 e adattamento del celebre romanzo storico “Genji monogatari” (Storia di Genji, il principe splendente) di Murasaki Shikibu che attraverso la narrazione della vita di Genji, il “principe splendente” della corte del periodo Heian (794-1185), fornisce un quadro della vita dell‘epoca e del palazzo imperiale. Secondo quanto narratovi, una giovane fanciulla si trasferisce nel palazzo imperiale, scoprendo che a corte non solo il rango condiziona i rapporti sociali e ogni aspetto della vita quotidiana, ma anche che pettegolezzi e intrighi sono le attività più in voga tra le donne. Casualmente, si imbatte nell’imperatore senza riconoscerlo e tra i due nasce una storia d’amore che porta alla nascita di un figlio, Genji. Il bambino rimane orfano di madre a soli tre anni e a corte non è ben visto perché si teme aspiri al trono al posto del fratellastro più grande. Ma crescendo Genji sembra pensare più alle donne che alla politica.
In questo manga, il disegno della Yamato si fa più sofisticato, elimina siparietti comici e occhioni optando per una maggiore sobrietà narrativa, ma, a modesta opinione di chi scrive, perdendo molto della sua freschezza e rendendo le tavole meno briose. Insomma, la “vera” Waki Yamato rimane quella di Anne, che vi consigliamo di leggere.
Ultima nota: il manga di Anne è pubblicato in Italia da Star Comics, se invece desiderate gli illustration book giapponesi di Waki Yamato potete richiederli a fioridiciliegioadriana@gmail.com.








sabato 16 dicembre 2017

ITALIANI IN GUERRA


Qualche decennio fa, molti illustratori e fumettisti italiani vennero "arruolati" da riviste inglesi dedite alla pubblicazione di fumetti di guerra, segnalandosi soprattutto per le splendide e realistiche copertine. Artisti come Roy D'Ami, Giorgio De Gasperi, Alessandro Biffignandi, Nino Caroselli, Pino dell'Orco, ecc. portarono un contributo importante al fumetto anglofono. La casa editrice inglese Book Palace ha annunciato che il prossimo numero della splendida rivista Illustrators, per l'occasione intitolato "War is Hell", sarà uno speciale dedicato proprio agli italiani che lavorarono con la Fleetway (editore specializzato in era comics). Attendiamo con impazienza il numero, rammaricandoci del fatto che, al contrario, gli editori italiani non sembrano ricordarsi di tale patrimonio di immagini e talento. Come ha detto qualcuno, nemo propheta in patria.




sabato 2 dicembre 2017

NEVICA

Visto che sta nevicando, rispolvero un mio vecchio pezzo su neve e fumetti. Leggetelo stando vicino a un caminetto acceso.


Sembra incredibile, eppure ogni cristallo di neve è differente dall’altro. Così, quando milioni di piccoli fiocchi bianchi cadono dal cielo, ognuno di loro, pur partendo da una struttura esagonale di base, è unico, simile eppure diverso dagli innumerevoli “bianchi fratellini”. Certo, nulla impedisce che la sorte porti la natura a creare casualmente due fiocchi identici, ma l’evento è assai improbabile, un po’ come trovare due esseri umani uguali. È solo uno dei tanti elementi di fascino della neve, prodotto del cielo che ammanta di malinconia tutto ciò che ricopre, straordinaria fonte di materia prima per interminabili battaglie tra ragazzini, soffice tappeto su cui scivolare a bordo di slittini improvvisati o tecnologici sci. Ma la neve sa anche essere pericolosa, fredda e indifferente, accecare gli occhi e gelare i piedi, sorprendere il viaggiatore con la tempesta e cancellarne le tracce sotto nuovi fiocchi. Per tutti questi motivi e molti altri, come la collega pioggia, risulta utilissima a fini narrativi, presentandosi di volta in volta come un incantevole scenario o un terribile nemico.

Nei fumetti la neve è di casa. Innumerevoli sono le serie che la ospitano tra le proprie tavole, dalle strisce umoristiche ai serial avventurosi. La neve appare con grande frequenza nelle strisce e nelle tavole domenicali dei Peanuts di Charles Schulz, con Charlie Brown impegnato nella realizzazione di pupazzi di neve, e Snoopy che alterna momenti di euforia di fronte al cadere dei fiocchi con attimi di disperazione quando ricoprono la sua ciotola fino a farla sparire in una massa bianca e indistinta. Anche Calvin e Hobbes, di Bill Watterson, passano molto tempo tra paesaggi innevati, affontandosi in interminabili duelli a colpi di palle di neve, oppure costruendo pupazzi col classico naso di carota, o ancora sfrecciando su un piccolo slittino old style.
Dando una sbirciatina all’immenso serbatio disneyano di storie, oltre a una miriade di racconti natalizi nei quali la neve è un ingrediente fondamentale, ci si imbatte nella Saga della spada di ghiaccio, a firma Massimo De Vita. Questo ciclo narrativo, composto da quattro storie leggibili anche autonomamente, vede Topolino e Pippo trasportati in un mondo fantasy quasi sempre avvolto dalle neve, dove una volta tanto l’eroe è lo spilungone dalle orecchie penzolanti.

In alcuni fumetti il lato pericoloso della neve emerge con altrettanta forza. Come nel graphic novel Whiteout (noto in Italia anche col titolo Tutto Bianco) di Greg Rucka (testi) e Steve Lieber (disegno). Sorta di balzo indietro nel tempo, alla riscoperta del fumetto avventuroso e poliziesco americano, dalle tavole in bianco e nero arricchite da pochi retini, dall'avventura solida e realistica, Whiteout vanta buoni personaggi e un disegno che non fa gridare al miracolo, ma valido e funzionale. Ambientato nel claustrofobico mondo dell'Antartide, dove tutti sono prigionieri del gelo e di un bianco accecante fatto di ghiaccio e neve, mette in scena la misteriosa morte di un uomo e le conseguenti indagini dell'agente federale Carrie Stetko, che si trova nella “ghiacciaia” (così viene chiamata l'Antartide) quale punizione per il suo carattere ribelle. Carrie svolgerà fino in fondo il proprio lavoro, mettendo insieme un indizio alla volta fino all'individuazione del colpevole. Il personaggio torna nel successivo Whiteout Melt e ancora una volta ha parole dure per la distesa di neve e ghiaccio in cui si muove: “L’Antartide è una puttana assassina. Non sto esagerando. Sempre in attesa di un’occasione per ucciderti. Non è una questione personale. Al ghiaccio non importa. È semplicemente la sua natura.” Questa volta Carrie deve vedersela con i responsabili di un massacro avvenuto in un centro di ricerche russo, ma il suo avversario più temibile resta l’ambiente ostile, quella bianca e fredda sostanza che muta da neve in ghiaccio.  

Anche il fumetto giapponese vanta la sua bella dose di storie innevate, tra cui il volume La principessa bianca del gruppo al femminile CLAMP. Con un disegno ancora un po’ acerbo e una narrazione inesperta che talvolta incespica sui dettagli (si tratta di uno dei primi manga del gruppo), prendono comunque vita dei buoni racconti incentrati sulla neve e sulla sua principessa, Shirahime, che quando piange provoca la caduta di milioni di freddi fiocchi bianchi. Scorrendo le pagine dell’albo si respira un po' il gelido fiato dell'inverno, un po' il sapore di leggende lontane, immersi in una bicromia fatta più di bianchi che di neri.

Anche Jiro Taniguchi si sofferma sull’affascinante fenomeno atmosferico, dedicando alla neve uno dei capitoli dell’antologia L’uomo che cammina. Incentrato sulle passeggiate di un tranquillo signore di mezza età, perfettamente calato nel quotidiano giapponese, il volume offre incantevoli squarci nipponici: strette viuzze di quartiere, viottoli di campagna, ponti e boschi, e anche una nevicata inattesa che il protagonista osserva sorridente assieme a uno stupito compagno a quattro zampe. La neve torna insomma a essere una presenza gradevole, mostrando di possedere infinite sfaccettature in ambito narrativo, così come infinite sono le strutture che possono assumere i suoi cristalli. Miracoli della natura. E dei fumetti. 

venerdì 3 novembre 2017

ADDIO A RENZO CALEGARI

Se ne è andato oggi Renzo Calegari, grande cantore del Far West che ora cavalca nelle praterie del Grande Spirito. Grazie per tutte quelle immagini.


Renzo Calegari comincia la sua collaborazione con le Edizioni Audace negli anni Cinquanta. All’interno dello studio Creazioni Artistiche Dami, agenzia dei fratelli Piero e Rinaldo Dami, collabora infatti serie western come Il sergente York, Il ritorno dei tre Bill, El Kid e La pattuglia dei Bufali. La sua prima esperienza personale è datata 1957, quando su testi di Gian Luigi Bonelli disegna i 21 albi a striscia di Big Davy, temerario eroe americano costruito sulla figura storica di Davy Crockett e quindi pronto a battersi per il proprio Paese e per la conquista di Alamo. Da quel momento in poi, la carriera artistica di questo genovese, nato a Bolzaneto il 5 settembre 1933, è spesso legata a doppio filo col genere western, ma alterna momenti di intensa produzione ad altri di totale abbandono della professione di disegnatore in favore della carriera politica.
Sempre nel 1957, e ancora una volta grazie all’agenzia Dami, Calegari comincia una proficua collaborazione con la casa editrice Fleetway per il mercato inglese. Gli vengono affidate le matite di parecchi episodi della serie aviatoria Battler Britton, creata dagli inglesi Mike Butterworth e Geoff Campion, a cui si dedica fino al 1966. L’esperienza gli dà modo di realizzare anche la stroria breve I cavalieri dell’aria, sempre legata agli aerei ma questa volta per la rivista italiana Sgt. Kirk dell’editore Florenzo Ivaldi.
A fine anni Sessanta è una delle colonne portanti di Storia del West, epopea western creata da Gino D’Antonio per Edizioni Araldo, in cui attraverso le avventure della famiglia Mac Donald vengono portati sulla carta personaggi e avvenimenti cardine della frontiera americana.

Dopo una decina d’anni di pausa, Calegari fa ritorno ai fumetti nel 1977, grazie alla rivista Skorpio della casa editrice Eura per cui realizza i disegni di Welcome to Springville, alternandosi con il conterraneo Ivo Milazzo, su testi di Giancarlo Berardi. Calegari così non solo torna a disegnare, ma lo fa col suo genere preferito, il western, grazie a storie brevi che ruotano attorno alla cittadina del titolo. La collaborazione con Berardi lo porta anche a disegnare un numero 17 (del 1978) di Ken Parker, serie della Editoriale Cepim, segnando quindi un ritorno alle pubblicazioni Bonelli che videro il suo esordio artistico. 
Inizia inoltre una collaborazione col settimanale Il Giornalino, della Periodici San Paolo, per cui scrive e disegna Boone, un altro Wwestern. Non disdegna neanche collaborazioni con riviste d’autore, come Orient Express (edizioni L’isola trovata), su cui appaiono alcuni episodi di Welcome to Springville, e Zodiaco (Lo Vecchio), di cui è curatore oltre che autore di una storia incompiuta ambientata sul treno Orient Express.
Si arriva agli anni Novanta, durante i quali Calegari dà vita allo studio La Cittadella, sito a Chiavari, con cui continua a collaborare con i propri editori di riferimento. Così su Il Giornalino appaiono nuove serie realizzate a più mani, tra cui Cristoforo Colombo, Gente di frontiera, America! America!. In casa Sergio Bonelli Editore, invece, Calegari si cimenta col mito western per eccellenza, quel Tex Willer che ancora oggi incanta milioni di lettori. Con la collaborazione di Stefano Biglia e Luigi Copello disegna “La ballata di Zeke Colter”, una lunga avventura scritta da Claudio Nizzi per l’Almanacco del West del 1994.
Si arriva infine al 2007, quando, sempre in casa Bonelli, esce il volume speciale Bandidos!, scritto dall’ormai scomparso Gino D’Antonio e incentrato su uno dei temi principali del western: il trasferimento di mandrie di bestiame a opera di coraggiosi cowboy. 

Al di fuori della produzione fumettistica, e parallelamente a essa, Renzo Calegari si cimenta a più riprese con l’illustrazione. Già negli anni Settanta realizza immagini per calendari e riviste di alcune banche e assicurazioni liguri, ma negli anni Ottanta diviene uno dei copertinisti della collana I Grandi Western di La Frontiera Edizioni, casa editrice di Bologna. In quelle suggestive immagini (che prendono sia la prima che la quarta di copertina) può finalmente rappresentare in tutta la loro magnificenza, libero dalle restrizioni delle piccole vignette, le situazioni tipiche del vecchio West: dalla rapina in banca alla caccia al bisonte, dalla carovana in marcia alla carica di cavalleria. Il suo tratto ormai esperto e propenso al tratteggio si arricchisce di colori sfumati, dell’azzurro del cielo e del giallo del deserto, del marrone delle case in legno e del bianco delle montagne innevate. 

Moltissime sue immagine a colori vengono raccolte in alcuni libri di Lo Vecchio Editore: i due volumi di Il West di Renzo Calegari e Texas Ranger, che con le loro immagini e i loro scritti testimoniano ancora una volta l’amore, e la profonda conoscenza, dell’artista per il Far West, palcoscenico della maggior parte dei suoi lavori.


AUGURI, OSAMU TEZUKA

Oggi avrebbe compiuto gli anni Osamu Tezuka. Lo ricordo con la scheda sotto e qualche suo sketch..


Nato nei pressi di Osaka il 3 novembre 1928, Osamu Tezuka è forse il più importante artista del mondo dei manga e degli anime. Debutta come fumettista ancora giovanissimo, nel 1946, con la serie intitolata Machan no Nikkicho (“Il diario di Macchan”). È solo il primo di un interminabile numero di fumetti, che gli faranno meritare l'appellativo manga no kamisama (“dio dei manga”). La celebrità arriva già dal 1947 con Shin Takarajima (“La nuova isola del tesoro”), libera reinterpretazione su testi di Shichima Sakai dei classici romanzi d'avventura. La fantascienza segue nel 1948 con Lost World, nel 1951 con Next World e da Tetsuwan Atom (“Atom dal braccio di ferro”, noto in Occidente come Astroboy), un ragazzino robotico. Tezuka è anche responsabile della creazione del primo shojo manga (manga per ragazze) grazie a Ribon no kishi (“Il cavaliere col fiocco”, in Italia La principessa Zaffiro), del 1953. Negli anni Sessanta si getta nell’avventura dell’animazione, a cui come autore deve moltissimo, poiché molto del suo modo di raccontare e disegnare deriva dalla visione di cartoni animati, in particolar modo quelli di Walt Disney. Fondata nel 1961 la Mushi Production, nel 1963 trasforma Tetsuwan Atom nella prima serie animata nipponica per la televisione. Due anni dopo segna un altro primato, la sua Jungle Taitei (“Il re della giungla”) è la prima serie giapponese a colori. Nel 1971 si allontana dalla Mushi Production, in difficoltà finanziarie e ormai con obiettivi diversi dai suoi, per creare la nuova Tezuka Productions, sotto il cui marchio realizza nel 1980 il lungometraggio fantascientifico L'uccello di fuoco 2772, ispirato a un suo manga. Nel corso degli anni si dedica anche all'animazione d'autore, per esempio con Jumping, divertente cortometraggio con cui nel 1984 vince il Gran Premio al Festival dell'animazione di Zagabria. Osamu Tezuka scompare il 9 febbraio 1989.

sabato 28 ottobre 2017

100 ANNI PER BONAVENTURA


“Qui comincia la sciagura del signor Bonaventura.” È con queste parole, apparse sul Corriere dei Piccoli del 28 ottobre 1917, che si apre la prima avventura del celebre personaggio in abito rosso. Un incipit, che in seguito verrà lievemente corretto in “qui comincia la sventura”, destinato ad accompagnare la creatura di Sto in tutte le sue tavole.
Secondo quanto narrato dallo stesso Sergio Tofano, Bonaventura nasce in modo abbastanza estemporaneo, semplice, quasi intuitivo: “Silvio Spaventa Filippi (il direttore del Corriere dei Piccoli, ndr) mi domandava un nuovo personaggio, da aggiungere a Fortunello, a Cirillino, a Cagnara, al Capitan Cocoricò e agli altri eroi delle colorate pagine del Corrierino. E una sera, al caffè, sul marmo di un tavolino, nacque – quasi per una distrazione – il nuovo eroe… Fu bianco e rosso perché al momento della sua nascita non avevo a mia disposizione che un lapis rosso e il marmo bianco del tavolino. E la sua foggia restò quella.” I colori quasi patriottici del personaggio sono quindi casuali, del tricolore manca solo il verde, che fa tuttavia capolino in un’avventura che lo vede perdere la giacchetta rossa e costretto a sostituirla con delle foglie. Ma nello spirito creativo di Bonaventura un pizzico di amor patrio c’è, dato che tra i motivi che portano alla sua nascita vi è anche la volontà di risollevare l’italico morale dopo la sconfitta di Caporetto (del 24 ottobre 1917). Forse intendendo suggerire che, come nella finzione fumettistica da una sciagura può nascere qualcosa di buono, anche nella realtà l’esercito italiano può risollevarsi dalla disfatta. Cosa che, infatti, avviene di lì a poco cambiando le sorti della Grande Guerra.
Ma che succede in quella prima tavola in sei vignette accompagnata da divertenti rime? Il personaggio, sportosi da un balcone, cade rovinosamente verso il suolo, senonché la sua caduta viene attutita da un lestofante di passaggio condannandolo alla cattura. In premio, Bonaventura riceve una bella medaglia, o meglio: “lo decorano al valore tra l’unanime contento!” Lo schema narrativo è deciso e destinato a divenire immutabile: Bonaventura colpito da una qualsiasi sventura la vede trasformarsi in fortuna, guadagnandosi il suo premio che ben presto diviene un immancabile milione di lire.

IL BONAVENTURA DEGLI ALTRI
Quella cifra inarrivabile, mostrata sotto forma di un foglio bianco su cui è riportata in corsivo la scritta “un milione” perdura sino al 15 agosto 1943, quando la galoppante inflazione non la fa apparire più così favolosa. Si trasforma quindi in “un miliardo”, restituendo smalto al premio e a colui che lo incassa. Accompagnato dalla consuete strofette in versi ottonari, Bonaventura continua ad allietare il pubblico fino agli anni Settanta, sempre grazie alla verve creativa di Sto, anche se talvolta a firmarne le avventure subentra qualche nuovo artista. Già negli anni Venti, in occasione di speciali ricorrenze come Pasqua e San Silvestro, il Corrierino chiede ad altri autori di realizzare brevi omaggi al personaggio. Così, Antonio Rubino, Carlo Bisi, Domenico Natoli ed Enrico Castello ne firmano personali reinterpretazioni, spesso facendolo agire al fianco di altri character del vendutissimo settimanale, come Felix, Fortunello, Arcibaldo ecc. Negli anni Settanta è invece Carlo Peroni a ottenere dallo stesso Tofano l’autorizzazione a creare nuove storie del personaggio, destinate a uscire dopo la morte di Sto. Poi tocca ad Adriano Carnevali, che porta avanti il personaggio fino al 1990. Oggi, per quanto le sue avventure in versi non appaiano più sul Corriere dei Piccoli, a sua volta scomparso, Bonaventura resta nel cuore di lettori e artisti. Persino il fumettista argentino Carlos Nine ne era un fan entusiasta: “Amo molto il Signor Bonaventura, colleziono i suoi vecchi libri. Era un fumetto fantastico.”

IL MONDO DI BONAVENTURA
Bonaventura non si esibisce solo sulla carta stampata, in quel suo mondo bidimensionale, dal segno essenziale, che per pulizia e gaia fantasia diventa una sorta di realtà alternativa, luogo incantato in cui ogni evento negativo si trasforma in successo repentino e inaspettato.
Dal 1927 al 1953 Tofano porta Bonaventura sulle scene teatrali per ben sei volte, mentre nel 1942 dirige un film a lui dedicato, con l’interpretazione di Paolo Stoppa. In epoca televisiva, Bonaventura ricopre un ruolo pubblicitario, che conferma in anni recenti sotto forma di disegno animato, grazie all’impegno del figlio di Sto, Gilberto Tofano. Negli anni Novanta è testimonial di una serie di strisce sull’economia, pubblicate sul Sole 24 Ore e si fa portavoce della nuova moneta, l’euro, incassando i propri premi nella moderna valuta. Sempre Gilberto Tofano, inoltre, in collaborazione con lo Studio Numeri crea due cortometraggi in computer graphic, Bonaventura e il canotto e Bonaventura e il baule, che riscuotono grande successo di critica. Insomma, tanti auguri Signor Bonaventura.

venerdì 15 settembre 2017

IL FUMETTO È NARRAZIONE


La parola “capolavoro” è spesso usata a sproposito nel mondo del fumetto. Una pecetta usata per promozionare e vendere qualsiasi cosa capiti in mano all’editore di turno. In genere, l’altisonante aggettivo va spegnendosi col tempo, assieme all’opera che andava a incoronare. In taluni casi, però, sopravvive ai decenni, riportato su riviste e libri di saggistica, incollato su lavori che magari vantano anche aspetti pregevolissimi ma non sono, perlomeno all’interno del medium fumetto, dei capolavori.
È il caso del Principe Valiant di Harold Foster, praticamente quasi da tutti considerato uno dei massimi esempi di fumetto, al contrario perfetto esempio di come NON si deve realizzare un fumetto.
Intendiamoci, i disegni di Valiant sono splendidi e il sottoscritto resta incantato per delle ore a osservare le singole vignette, ad apprezzare quei meravigliosi castelli che svettano verso il cielo, a esaminare dettagliatissime scene di battaglia con centinaia di uomini che si scontrano, a perdersi in paesaggi tanto vasti quanto suggestivi. Ma questo non è fumetto, è illustrazione. Non a caso, quando comincio a leggere Valiant, dopo poche tavole vengo rapito da Morfeo, cado in un sonno chimico (come lo avrebbe definito Enzo Jannacci) frutto delle lentezza narrativa e di testi posti ai piedi delle vignette, e non entro balloon come avviene comunemente nei fumetti, altra spia d’allarme per distinguere i comics da altro.
Tutto ciò non è frutto del caso, Foster cominciò a lavorare Valiant nel 1936, dopo aver disegnato Tarzan (di cui è stato il primo disegnatore), ma prima ancora era stato un illustratore e la sua matrice artistica rimase quella. Quando lasciò Tarzan per dedicarsi a Valiant lo dimostrò in modo inequivocabile, puntando fortemente sulle immagini. I testi alla base delle vignette, che erano cominciati con Tartan, rimasero. Al contrario di Burne Hogarth, altro illustratore che lo sostituì su Tarzan, non riuscì mai a liberarsi di questa “doppia catena”: immagini iperdettagliate e testi “slegati” dalle immagini.
Tra l’altro, il problema pare essere diventato “genetico”, irrimediabilmente fuso col personaggio. Nelle recenti nuove storie di Valiant realizzate dal duo Mark Schultz (testi) e Gary Gianni (disegni), infatti, la solfa non è cambiata: stupende immagini iperdettagliate e soporiferi testi posti alla base o in qualche angolo delle vignette. A parte la questione della sintesi del segno, che può essere una scelta o meno, un fumetto deve essere narrazione, movimento, flusso di pensieri e azioni. Se diventa uno sfoggio di bravura grafica non è più fumetto. Quindi, continuate a comprare le storie di Valiant, antiche e moderne, sognate a occhi aperti davanti ai suoi disegni, ma domandatevi se si tratta di buoni fumetti o di ottime illustrazioni.

venerdì 8 settembre 2017

MI SVEGLIO AL MATTINO E…


“Quasi quasi organizzo una fiera del fumetto.” Negli ultimi anni questa balzana idea sembra essere frullata nella testa di moltissime persone, che non solo hanno dimostrato di avere poca dimestichezza con l’organizzazione di fiere, ma anche con gli stessi fumetti. Preciso subito che non ho mai organizzato fiere, ma in oltre venticinque anni ne ho frequentate parecchie e in molteplici vesti, da semplice visitatore ad autore, editor, consulente, persino espositore e posso assicurarvi di avere visto “cose che voi umani non potreste neanche immaginarvi.” Salvo rari casi (fortunatamente qualcuno bravo c’è sempre) regnano approssimazione e faciloneria. Innanzitutto, dato che si parla di fumetti, gli improvvisati organizzatori sembrano ritenere che basti la passione per realizzare qualsiasi cosa. Un po’ come se un tifoso di calcio ritenesse di poter giocare in serie A solo perché sa tutto sulla sua squadra del cuore. Capita, quindi, di trovarsi di fronte qualcuno che intende dare forma a una mostra di personaggi della Bonelli, ma non conosce Galep. Oppure a ragazzotti che sanno tutto (o pensano di sapere tutto) sui manga ma ignorano qualsiasi altra scuola fumettistica, eppure pervicacemente insistono nel voler costruire un progetto (progetto?) a tutto campo. Ma i problemi maggiori nascono sul fronte puramente organizzativo, anche perché tali fiere sono ormai principalmente puntate sul commerciale, dato che in questo modo si può richiedere ai commercianti/standisti denaro con cui sovvenzionare tutto il resto. Avere una cinquantina di standisti (ma anche molti di più) che partecipano può essere una fortuna, ma diventa un disastro se non si è tenuto conto dei parcheggi, delle zone di carico e scarico, di eventuali montacarichi in caso di fiere su più piani, ecc. ecc. Vi assicuro che le imprecazioni di chi deve trasportare decine di scatoloni per centinaia di metri (perché davanti all’ingresso non vi è sufficiente spazio per i furgoni) possono far tremare i polsi al più torvo degli scaricatori di porto. Poi ci sono le genialate che danneggiano tutti, espositori e pubblico, come invitare un centinaio di cosplayer, perché fanno colore, ma non prevedere spazi dove possano cambiarsi e truccarsi, cosicché andranno a intasare i bagni (di solito già numericamente esigui) presi d’assedio da chi vorrebbe utilizzarli per il loro scopo primario. Poi che dire di quella fiera che impediva ai visitatori (paganti) di entrare e uscire (se non acquistando ulteriore biglietto) con l’unico scopo di costringerli ad acquistare bevande e cibo nel bar interno (con cui era evidentemente stato stretto un accordo commerciale). Altra cosa curiosa sono le fiere estive all’aperto, ma per cui non è prevista sorveglianza notturna e che quindi costringono i venditori a disallestire tutto la sera per allestire nuovamente la mattina. Ma è anche capitato che organizzatori si scordassero di standisti (paganti), non prevedendo uno spazio per loro e obbligandoli a un gigantesco gioco del tetris per “incastrarli” in spazi che non ne prevedevano la l’esistenza.
Poi c’è la questione che io chiamo “accozzagliamento”, ovvero la presenza in quella che dovrebbe essere una mostra mercato sul fumetto di altre tipologie che nulla ci azzeccano. Innanzitutto giochi e videogiochi (e qui furbescamente quasi tutte le fiere ormai si definiscono di “comics e games”), ma anche caramelle, bigiotteria, abiti, riproduzioni di spade e pistole, elettronica, ecc. Tale confusione di generi, media, merci è diventata così eclatante che qualcuno ha pensato di mettere tutto sotto l’ombrello “fantasy”, come se tale parola (evidentemente poco compresa nel suo significato) giustificasse qualsiasi cosa. O tempora, o mores. Anzi, o tempora o mercatis…

sabato 2 settembre 2017

PER MARVEL FAN


Annunciata per il 20 settembre l'edizione italiana di questo volumone. Sotto, la scheda dell'editore (Taschen). Le immagini sono dell'edizione USA.


Fin dalla prima pubblicazione dell'editore di riviste pulp della Marvel Comics, Martin Goodman, nel 1939, gli autori di fumetti della Golden Age della Marvel hanno sovvertito i canoni dei tradizionali copioni fantasy collocando nel mondo reale ciò che è inumano e invincibile. Con tre supereroi come il focoso androide, la Torcia Umana, il vendicativo principe di Atlantide, Namor il Sub-Mariner, e il supersoldato, Capitan America, Marvel ha creato un universo mitologico radicato in un mondo che i lettori riconoscono come simile al proprio, traboccante di humor ed emozioni forti. All'inizio degli anni '60, questo approccio audace ha dato il via alla creazione di supereroi che sono diventati in seguito nomi familiari: l'Uomo Ragno, l'Incredibile Hulk, i Fantastici Quattro, Iron Man, i Vendicatori, Thor, gli X-Men e molti altri. Gli appassionati celebrano ancora quel periodo come la Marvel Age dei fumetti, un'epoca popolata da un pantheon di eroi rissosi, mostri incompresi e cattivi dall'animo nobile. Tratta da 75 Years of Marvel Comics, questa nuova edizione TASCHEN raccoglie il meglio del più importante editore di fumetti al mondo, con uno sguardo approfondito non solo ai suoi personaggi più famosi, ma anche al gruppo di “architetti” i cui nomi sono altrettanto familiari di quelli dei protagonisti a cui hanno dato vita – Stan “the Man” Lee, Jack “King” Kirby, insieme ad altri grandi come Steve Ditko, John Romita, John Buscema, Marie Severin e molti altri. Con saggi di Roy Thomas, storico del fumetto ed ex caporedattore della Marvel, questo libro indaga il cuore di migliaia di personaggi in costume che continuano a lottare per il Bene nei fumetti, nei film e nei reparti giocattoli di tutto il mondo.


lunedì 28 agosto 2017

AUGURI, PAPERONE!

Quest'anno Zio Paperone compie 70 anni. Per celebrare l'evento, questo autunno/inverno usciranno diverse pubblicazioni. Tra le più interessanti, segnalo "Paperone - un patrimonio di storie" della casa editrice Giunti. Si tratta di un bel tomo di grande formato (25,5 x 30 centimetri) composto da 288 pagine al prezzo di 24,90 euro. Al suo interno parecchie storie a fumetti che ripercorrono la vita editoriale del papero e alcuni redazionali, affidati a diversi articolisti, che ne tracciano l'evoluzione col passare delle decadi. Tra tali articolisti vi è anche il vostro amichevole Castellazzi di quartiere.

martedì 22 agosto 2017

ADDIO A SERGIO ZANIBONI

Apprendo solo ora, da Marcello Toninelli, che il 18 si è spento Sergio Zaniboni. Veterano del fumetto italiano, magari lo ricorderò in seguito con una scheda. Ora, però, mi viene in mente un aneddoto personale divertente che lo riguarda. L'unica volta che lo incontrai personalmente era a una piccola mostra (non ricordo né quale, né dove). C'ero andato con mia moglie, Adriana, che non è mai stata una grande appassionata di fumetti, ma qualcosa ha dovuto imparare per forza vivendo in una casa piena di volumi. Ci eravamo separati per qualche istante e, quando la ritrovai, era in compagnia di Zaniboni, che le stava firmando qualcosa. Vedendoli insieme, esclamai "ah, hai conosciuto il buon Zaniboni." Mia moglie arrossì e io non capivo perché, allora mi spiegò: aveva scambiato Zaniboni per un disegnatore di Ken Parker e gli aveva chiesto un disegno di Ken. Zaniboni non se l'era presa e le autografò una piccola stampa con Tex e Diabolik (il disegno che allego). Insomma, un grande anche nella vita. Grazie a lui, sono venti anni che prendo in giro mia moglie per l'errore. Grazie, Sergio, ci mancherai.

domenica 20 agosto 2017

AUGURI A SERGIO TOFANO


Sergio Tofano nasce a Roma il 20 agosto 1886. Figlio di un magistrato, si laurea in lettere e contemporaneamente frequenta la scuola di recitazione all’Accademia di Santa Cecilia a Roma. Disegnatore autodidatta, nel 1908 Tofano inizia a collaborare con Il Giornalino della Domenica di Vamba, creando per l’occasione il monogramma di Sto, firma con cui diventerà celebre. L’anno successivo esordisce come attore nella compagnia di Ermete Novelli e poi in quella di Virgilio Talli, con cui continua a recitare per dieci anni, fino al 1923.
Due passioni, quella per il teatro e quella per il disegno, destinate ad accompagnarlo per tutta la sua vita.
Nel 1917 crea il Signor Bonaventura per il Corriere dei Piccoli, settimanale di cui diventa uno dei personaggi bandiera. Pubblicate per la prima volta il 28 ottobre del 1917, le avventure di Bonaventura, sceneggiate disegnate e verseggiate da Tofano, occuperanno per oltre quarant’anni le pagine del magazine per bambini.
Ma il fumetto, al tempo in rima e diretto a un pubblico di piccini, è solo una delle molteplici espressioni del talento grafico e narrativo di Sto. Negli anni Venti, in contemporanea con Bonaventura, l’eclettico artista si dedica anche a storielle da pubblicare in volumi, come Storie di Cantastorie e Cavoli a merenda, che rappresentano un po’ il contraltare dei fumetti pubblicati sul Corriere dei Piccoli. Mentre in questi ultimi predomina il disegno su testi in rima, nei libri le parole, sempre in rima, acquisiscono maggior peso rispetto alle immagini. Il risultato finale, tuttavia, non è dissimile, giungendo a filastrocche divertenti supportate da un disegno molto moderno per l’epoca, conciso, essenziale, di un perfetto minimalismo. Un concentrato di personaggi surreali e immediatamente simpatici, nonché una delle tante alchimie tra immagini e parole, via di mezzo tra fumetto e narrativa.
Nel 1923 sposa Rosetta Cavallari, compagna nella vita e nella professione, dato che lavora con Tofano in qualità di attrice e costumista. Comincia a cimentarsi, felicemente, quale illustratore di grandi classici della letteratura, tra cui Le avventure di Pinocchio, senza abbandonare la collaborazione coi periodici, che lo porta a disegnare per svariate testate, anche straniere, come la pubblicazione satirica argentina El Hogar e la rivista statunitense di moda Vanity Fair.
Nel frattempo, la fama di Bonaventura continua a crescere e il personaggio, a partire dal 1927, esce dalle vignette per esordire sul palcoscenico, grazie all’interpretazione dello stesso Tofano, che non manca poi di pubblicare tali avventure in volume corredandole con illustrazioni.
Anche la pubblicità è attratta da quel suo disegno pulito e comunicativo, vagamente debitore nei confronti del futurismo, così importanti marchi italiani desiderano affiancarlo ai propri prodotti. Per Barilla e Zucca realizza le figurine di un famoso concorso del 1937, mentre per Campari è autore di numerose campagne.
Sul fronte teatrale, nel 1927 forma la propria compagnia assieme a Checco Rissone e Luigi Almirante, comincia inoltre a rivestire i ruoli di autore, regista, scenografo e costumista. Recita anche in opere altrui, per esempio indossando i panni del professor Toti in Pensaci, Giacomino! di Luigi Pirandello. Negli anni Trenta approda al cinema, e nel 1943 scrive (con l’aiuto di Cesare Zavattini), interpreta e dirige il film Gian Burrasca.
Nel secondo dopoguerra importanti registi lo chiamano ancora sul set, così grazie a Luchino Visconti fa parte del cast di Il Giardino dei ciliegi e di Troilo e Cressida, mentre per Giorgio Strehler interpreta testi di Buchner e Goldoni.
Negli anni Sessanta è anche attore televisivo, pur continuando a frequentare cinema e teatro e impegnandosi nel ruolo di insegnante di recitazione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma.
Non dimentica neanche la propensione al disegno, illustrando il Marcovaldo di Italo Calvino su espressa richiesta dello scrittore.
Muore a Roma il 28 ottobre 1973, riconosciuto come uno dei più importanti artisti italiani del Novecento.


sabato 12 agosto 2017

CHI DI COSPLAYER FERISCE…


È per me giunto il momento di fare coming out, di confessare le mie mancanze, di recitare il mea culpa. Sono uno dei responsabili dell’arrivo dei cosplayer nel nostro Paese. Una ventina di anni fa, quando l’argomento era ancora oscuro alle masse, ho scritto qualche articolo a tema (secondo la mia amica Keiko Ichiguchi, che ha scritto un libro sui manga in Italia, sono stato anche il primo a usare la parola otaku). Non solo, ho anche incoraggiato innocenti e inconsapevoli fanciulli sulla strada del travestimento (stiamo parlando sempre di cosplayer, non fatevi strane idee), probabilmente provocandogli danni irreparabili. Ma mai, neanche nei miei incubi peggiori, avrei immaginato che un paio di decenni dopo folle di persone in variopinti costumi avrebbero invaso festival del fumetto, piazze cittadine, tendoni di mostre mercato. Non c’è evento dedicato ai fumetti ove non sciamino pulzelle e ragazzoni agghindati con armature, mantelli, corna, spade, oppure in adamitici costumi e con corpi dipinti e facce pesantemente truccate. I cosplayer sono come il prezzemolo, vanno bene in qualunque ricetta. Il punto è che gli organizzatori hanno compreso che fanno colore senza rappresentare una spesa, quindi ne incentivano la presenza in tutti i modi. Tuttavia, se a una fiera del fumetto ci sono dei cosplayer va bene, ma se si pensa che bastino dei cosplayer per fare una buona fiera non va affatto bene. Così, perché investire in mostre, conferenze, installazioni, basta fare una gara di cosplayer… Poi c’è il lato grottesco della faccenda. Una ragazza evidentemente sovrappeso che si veste da Sailor Moon non fa certo una bella impressione. Non fraintendetemi, alle ragazze curvy, così come si ama chiamarle ora, va tutta la mia simpatia, ma Sailor Moon è praticamente anoressica. E non è neanche un discorso sessista, visto che anche i vari Batman con panza da birra non sono egualmente un bello spettacolo. O il cosplay è aderente al personaggio impersonato oppure è meglio crearsi un proprio personaggio (e forse è anche più divertente). E che dire della sovraesposizione di pelle? Personalmente voto a favore di tutti i microcostumi che permettono la visione di cosce, chiappe e tette, ma attenzione perché possono essere diventare estremamente pericolosi per spettatori di una certa età. Ho visto sessantenni con gli occhi sbarrati e il cuore pompare a mille al passaggio di minorenni il cui costume somigliava più a un filo interdentale che a un abito. Insomma, se in una fiera ci sono cosplayer gli organizzatori d’ora poi saranno obbligati ad avere un defibrillatore. Non vorrete mica vedere i vecchi lettori di Tex morire d’infarto, vero?


lunedì 7 agosto 2017

T-SHIRT

Per puro divertimento, ho postato sulla mia pagina Facebook (venite a trovarmi anche lì) una foto al giorno di mie t-shirt a tema fumetto e SF. Ne posto qualcuna anche qui.







mercoledì 2 agosto 2017

ARRIVA POPEYE!

Dal 4 agosto, con Gazzetta dello Sport, arriva la collezione dei fumetti di Braccio di Ferro (alias Popeye). Ne approfitto per postare una scheda da me realizzata per un'enciclopedia del fumetto mai pubblicata.


mercoledì 5 luglio 2017

LA DONNE DI HUGO PRATT


“Queste donne avevano dei nomi tipici: si chiamavano quasi sempre Parda, che sta per pantera; erano ragazze con la pelle scura, con dentro sangue indio, spagnolo, calabrese, meridionale, arabo… Erano belle perché avevano sempre occhi 'intenzionati', pieni di sottintesi e di malizia, con le ciglia che facevano ombra, occhi che sembravano carboni vellutati o, se vuoi, maioliche. Erano occhi come quelli dei negri, ma più ardenti perché erano il frutto dell'unione di più razze.“ Con queste parole Hugo Pratt descriveva le donne argentine, incontrate in quei locali di Buenos Aires che negli anni Cinquanta accoglievano molti italiani, incluso il nostro disegnatore di fumetti in cerca di fortuna. E le donne di carta di Pratt devono molto a quelle donne di carne delle notti argentine. Soprattutto i loro sguardi, il loro fare silenzioso e ammiccante, la capacità di comunicare senza parlare.
Le donne dei fumetti di Pratt possono portano con sé l'odore di spezie e di mare, il rumore delle onde e del vento, il silenzio del deserto. Sono il ritratto di mille altre donne incontrate nella realtà: in Africa, in Asia, nel Pacifico. L'universo di Corto Maltese, alter ego cartaceo del nostro, è pieno di queste donne. Da Bocca Dorata a Venexiana Stevenson, da Pandora a Banshee O'Dannan, da Morgana a Esmeralda. Avventuriere, spie, rivoluzionarie, streghe, fate e ogni altra cosa. Le donne di Corto sono belle (ma quasi mai appariscenti) e intelligenti, mai succubi degli uomini. Possono essere travolte dai sentimenti, ma alla fine sono abbastanza forti far prevalere la ragione, dimostrando in fondo di essere meno sentimentali di un Corto che si finge cinico senza esserlo. Non a caso sono proprio le donne a prendere le decisioni finali nelle sue storie amorose, lasciandolo sempre solo a vantaggio di un meccanismo narrativo che lo preferisce eterno libero per terre lontane e misteriose, ma lo condanna a una altrettanto eterna solitudine del cuore.
Si finge cinico Corto, in realtà molto spesso le donne sono state la sua salvezza, la sua ancora di salvataggio. “Le donne avrebbero dovuto essere la mia rovina da tempo oramai”, dice Corto a bocca Dorata, ma ancora una volta si finge cinico, sapendo dentro di sé che la verità è un’altra e che il più delle volte sono state per lui ancore di salvataggio, cosa non da poco per un marinaio.
Ma prima delle donne di Corto c'è stata Anna Livingston di Anna nella giungla. Questa ragazzina nell'Africa tra le due guerre mondiali mostra di avere più furbizia e sangue freddo degli ufficiali inglesi di stanza nel villaggio di Gombi, avamposto militare di un continente ancora tutto da esplorare. Già nel primo episodio Anna rivela di che pasta è fatta, salvando tutto il villaggio dagli indigeni sul piede di guerra. Sa badare a se stessa Anna, prototipo delle donne prattiane , di queste donne apparentemente fragili e invece molto forti, di queste figlie dell'avventura che dell'avventura hanno dovuto farsi carico anche del lato doloroso, lasciando a Corto e a Pratt la libertà di continuare a rincorrere il sogno di nuovi viaggi, nuovi luoghi, nuove donne.