venerdì 19 febbraio 2016

DRUILLET IL VISIONARIO


Ho sempre considerato Philippe Druillet uno dei fumettisti più importanti di tutti i tempi, anche se alcune sue opere mi angosciano parecchio. Di lui, però, si parla molto poco. Recupero, quindi, un'intervista del 2000 (se ricordo bene, realizzata nel corso di una sua mostra a Milano).


"Alcuni uomini hanno la capacità di vedere molto lontano: Philippe Druillet è uno di questi; i suoi sogni, le sue leggende non finiscono mai di affascinarmi; lo considero un illustratore straordinario, dotato di una potentissima vena creatrice. Non si può restare indifferenti di fronte alla violenza dei suoi universi infernali, dei suoi paesaggi pervasi da una sensazione demoniaca di potere arcano, e dai suoi eroi guerrieri, eredi senza tempo di antiche saghe…"
Con queste parole George Lucas introduce Philippe Druillet, e il fatto che a rimanere tanto colpito dalla sua arte sia un regista (e un costruttore di mondi fantastici) non stupisce, dopotutto la vita artistica del disegnatore francese è sempre stata legata a doppio filo col cinema. Nato a Tolosa il 28 giugno 1944, Druillet ha infatti cominciato la propria carriera artistica come fotografo (nel 1963), proseguendo come sceneggiatore del film Dracula (15 minuti di ombre cinesi) e collaboratore di riviste sul cinema fantastico: Midi-Minuit Fantastique e Famous Monsters of Film Land. Il fumetto piomba nella sua vita solo nel 1966 quando realizza la sua opera più famosa a livello internazionale, Lone Sloane, tradotta anche in Italia da Mondadori nel 1973. In quelle tavole gigantesche e scioccanti (specie per gli adolescenti dell'epoca) c'è già tutto il Druillet artista e visionario. Ardite e monumentali architetture, colori psichedelici, dilatazione infinita dello spazio, incontro tra passato e futuro remoti, sono solo alcuni degli elementi portanti delle avventure di quel solitario cowboy del futuro che è Lone Sloane, continuamente in bilico tra il sogno e l'incubo, tra il desiderio di conoscenza e il fascino del mistero, tra l'ossesione dell'ordine geometrico e l'oblio del caos. La strada è insomma tracciata e la forza dirompente delle visioni Druillet si fa largo anche nelle opere successive: Délirius (del 1972 su sceneggiature di Lob), Yragaël (del 1973-4 su sceneggiatura di Demuth), l'umoristico Vuzz (1973-4), Mirages (1974), l'angosciante La Nuit (1975-6). Nel frattempo entra a far parte degli Umanoidi Associati e con Moebius, Dionnet e Farkas nel 1974 cofonda la rivista culto Metal Hurlant, destinata a cambiare il mondo del fumetto. Con la chiusura di Metal Hurlant si perdono le sue tracce, perlomeno in Italia, ma anche se meno visibile Druillet continua a creare, soprattutto per i mondi dell'illustrazione, del design, dell'animazione, del cinema: sua prima passione che gli permette di collaborare anche a Star Wars. Il tempo per il fumetto è poco, ma qualcosa vede comunque la luce, per esempio l'ennesima interpretazione del mito del vampiro in Nosferatu (1989). Sarà tuttavia il 2000 a riportare alla ribalta Druillet fumettista, sono infatti attese a giorni in Francia le tavole della sua nuova opera in cui tornare a respirare quell'atmosfera antica e moderna allo stesso tempo, folle e visionaria, a cui l'artista ci ha ormai abituati. 


LA FORZA DEL FUTURO È L'ESSERE UMANO
Intervista a Philippe Druillet

Quando si parla di futuro o di fantascienza si pensa agli Stati Uniti, magari al Giappone… Guardando le mostre del ciclo Visioni di fine millennio ho invece notato che tutti gli artisti sono europei: Giger, Moebius, Bilal, Druillet. Che ne pensa?
L'Europa ha un grande bagaglio grafico e culturale. La cultura europea, soprattutto quella del diciannovesimo secolo, affiancata dalle nuove tecnologie ci permette di proiettarci nel futuro molto più facilmente. 

La vecchia Europa ha insomma ancora molto da raccontare…
Sì, soprattutto considerando il grande interesse che nutrono gli americani nei confronti degli illustratori europei, sia nel mondo dei fumetti che in quello del cinema che da parecchio tempo utilizza artisti europei. Basti pensare che una parte dei film di Walt Disney viene realizzata in Francia. Ovviamente oltre che un interesse culturale ve ne è anche uno pratico, economico, ovvero spostare fondi in Europa facendo buoni affari. Anche l'arte è commercio.

Druillet è un visionario?
È quello che si dice di me, ma non posso affermarlo io. Faccio solo il lavoro che mi sento di fare. Comunque ammetto che i miei lavori hanno fatto il giro del mondo, e ho notato la bande dessine ha cambiato il modo di vedere il fumetto: ne sono molto contento. È osservando i volumi francesi che gli editori americani hanno cominciato a realizzare veri e propri volumi oltre ai comicbook. Se potessi avere un dollaro per ogni ispirazione o per ogni "plagio" scaturito dai miei volumi oggi sarei miliardario.

Tuttavia il fumetto sembra essere entrato in crisi in tutto il mondo…
Non sempre, in Francia la situazione non è male. Tra gli anni Settanta e quelli Novanta vi è stato un periodo di crisi, ma ora il fumetto sembra rinascere. Certo non ci sono più le riviste, i "giornaletti", ma si vendono bene i volumi, i libri. Una situazione diversa dall'Italia dove si vendono molto gli albetti invece che i volumi di lusso. Inoltre molti disegnatori francesi lavorano in altri settori: fotografia, cd rom, cinema. Importanti sono per esempio i cd rom, dopotutto invece che girare le pagine si guarda lo schermo, ma non è molto diverso dal fumetto. Con questa idea ho realizzato Ring di Richard Wagner, una storia fantascientifica su cd rom.

Quindi è un estimatore della computer graphic?
Sono stato uno dei primi in Francia a usarla. Ho cominciato venti anni fa guardando le riviste militari e scientifiche, studiando tutte le immagini in computer graphic. Ho subito capito che si trattava di una tecnologia superiore al disegno. Ci ho messo quindici anni per farlo capire e nel frattempo la tecnologia è andata avanti e ora la usano un po' tutti. Ho anche realizzato una serie animata, Xcalibur, 26 episodi tutti con immagini di sintesi. Ultimamente ho ripreso a disegnare fumetti, ma sono consapevole che ormai non si può fare solo questo.

In altre parole ha un'ottima opinione del computer…
Il computer è uno strumento in più nelle mani dell'artista contemporaneo. Ma è appunto uno strumento e nulla più, senza l'intelligenza e la creatività umana non serve a nulla.

Strano, leggendo i suoi fumetti lei sembra avere una visione pessimista del futuro. Pensando al titolo di un saggio di Roberto Vacca, Medioevo Prossimo Venturo, vengono in mente le sue opere, ambientate nel futuro, ma in un futuro barbarico…
La barbarie è alle porte, ma solo se non facciamo attenzione. La forza del futuro non è la tecnologia, ma l'essere umano. In fondo la mia non è una visione pessimista del futuro.

Devo confessare che leggendo La Notte e un suo articolo sulla morte mi ero fatto l'idea di un Druillet molto più cupo di quello che ho davanti…
Parlare della morte serve a esorcizzarla. E comunque mentre lavoro non sono la persona che vedi in questo momento (ride).

Guardando le sua tavole ci si trova di fronte a una strano contrasto tra anarchia e ordine. La tavola è frammentata, le vignette sembrano disordinate, eppure tutto è al suo posto, ogni singolo tratto tra migliaia è nella giusta posizione, ordinato…
Sia coscentemente che incoscientemente tutto il mio lavoro è estremamente geometrico e non è lontano dalla teoria scientifica dei frattali. In fondo io creo dei mondi e i mondi hanno un loro ordine.

È una sorta di divinità?
(ride) No, credo che dio non sia un buon regista.

Una curiosità: come è nata la rivista Metal Hurlant?
In modo molto semplice. un gruppo di artisti, io, Moebius, Jean-Pierre Dionnet e altri arrivavamo da Pilote e volevamo fare una nuova rivista, così è nata Metal Hurlant.

Eravate cosapevoli che stavate sconvolgendo il modo di fare fumetto?
È sempre così quando si fa qualcosa di nuovo. Le nuove generazioni cercano di imitarti. È stato così per altre riviste nel passato, sarà così per altre riviste nel futuro.

E come è finita?
Ancora in modo molto semplice: vi furono problemi finanziari. Metal Hurlant era una bella rivista, ma non si reggeva finanziariamente. C'erano anche tanti progetti, per fare cinema e animazione, ma tutti finì per problemi finanziari. Ancora oggi la gente mi chiede: "perché ha chiuso Metal Hurlant?". Non lo so, ha chiuso.

Vi rivedete? Il gruppo di Metal Hurlant collabora ancora?
No. Capita saltuariamente di incontrarci, ma ognuno di noi ha preso la sua strada. Dionnet pere esempio lavora per Canal Plus. 

I suoi personaggi sono spesso dei solitari, il caso più evidente è Lone Sloane. Come mai?
Sono persone in cerca di qualcosa, forse di sé stessi.

È vero che ha collaborato con Umberto Eco?
Sì. Le prime pagine di Le Retour de Lone Sloane derivano da alcune illustrazioni che avevo realizzato per un libro di Eco nel 1974/75. Non ricordo il titolo, ma so che è uscito in Italia.

Saltuariamente ha anche scritto testi per altri autori, Bihanic e Picotto, come si è trovato nella veste di sceneggiatore?
Sì, ho realizzato sceneggiature per altri. Mi piace scrivere oltre che disegnare. Ho scritto anche sceneggiature per film, credo mi arricchisca come artista.

Visto che ha accennato al cinema, come è nata per la collaborazione per Star Wars? 
George Lucas mi aveva contattato chiedendomi dei disegni poiché è appassionato di fumetti, a cui si è ispirato molto. Devo ammettere che sono rimasto molto deluso dall'ultimo film di Star Wars. Erano anni che Lucas si lamentava perché non aveva avuto modo di approfondire la psicologia dei personaggi nella prima trilogia, e ora che ne ha avuto modo ha realizzato un film senza personaggi e senza sceneggiatura. Ne ho dedotto che pur piacendomi molto George Lucas, Steven Spielberg è molto più intelligente di lui (ride).

Bisognerebbe proporre a Spielberg di fare un film su Lone Sloane…
In realtà un progetto esiste da tempo, ma io vorrei fosse realizzato tutto con immagini di sintesi. Ora che tecnologia e artista si avvicinano sempre più comincia a diventare una possibilità reale. Quando ho visto che i dinosauri di Jurassic Park si muovevano, ho capito che tutto quello che ho disegnato sulla carta poteva essere portato sullo schermo.

giovedì 11 febbraio 2016

MAPPE


Che cos’è una mappa? Secondo il dizionario della lingua italiana, si tratta della definizione grafica di un territorio. Ma chi vede una mappa come una rappresentazione oggettiva della realtà, di luoghi e distanze precisi e immutabili, non solo è in errore, ma si sta perdendo il meglio di ciò che una mappa può offrire: un complesso e sottile gioco di illusioni, misteri, sogni, promesse che scivolano silenziosi e ammiccanti lungo le linee stampate sulla sua carta. Da sempre, le mappe sono principalmente materia per esploratori e sognatori, anche in tempi moderni come i nostri. Ma in passato lo furono ancora di più. Durante il Medioevo e il Rinascimento oscuri estensori di tali affascinanti documenti tentavano, nella penombra dei loro studi, di dare forma al mondo. Desiderosi di riprodurre qualcosa di incredibilmente complesso, interessati a dare ordine al caos, destinati ad agire per approssimazione, tiravano linee e scrivevano nomi, coloravano fiumi e laghi, inserivano indicazioni numeriche. 
Con informazioni parziali, talvolta di seconda mano, con una scienza ancora inadeguata rispetto all'obiettivo, i cartografi del passato delineavano continenti e oceani, e dove non arrivavano con la logica supplivano con l'immaginazione. In tal modo lo sconosciuto, l'inesplorato, spesso assumevano le forme della fantasia o della paura: gli Oceani non ancora solcati da navi erano abitati da incredibili serpenti marini, le terre non ancora calpestate da piedi europei avevano contorni approssimativi e contenuti fantastici, fatti di Paesi ammalianti e creature leggendarie. Ma quello che più importa è che quelle cartine, che avrebbero dovuto essere una specchio del mondo, diventavano quasi sempre una visione soggettiva dello stesso, influenzata da scelte di potere (per secoli l'Europa è stata disegnata più grande di quello che è realmente), da pregiudizi o dal semplice desiderio di rendere il mondo simile a sé, cioé di proiettare sé stessi su di esso, piuttosto che accettare di esserne una minuscola parte.
E alle pulsione dei singoli spesso si sommavano gli interessi delle collettività, le pressioni dei sistemi di governo, l’egocentrismo e la brama di protagonismo di monarchi e dittatori per cui il proprio regno, il proprio mondo, doveva trovarsi al centro delle mappe e non collocato in zone periferiche. 

Ciascuna mappa, quindi, finiva per cristallizzare una visione estremamente personale del mondo, più che una realmente oggettiva. Come la prospettiva cristiana centrata su Gerusalemme della Mappamundi di Hereford del Tredicesimo secolo.  Così chiamata poiché custodita nella cattedrale inglese di Hereford, viene attribuita a Richard Haldingham che l’avrebbe disegnata tra il 1276 e il 1283. Basata su nozioni storiche, bibliche, classiche e mitologiche, piuttosto che geografiche, si poneva un obiettivo ben preciso, mettere la cristianità (simboleggiata da Gerusalemme) al centro del mondo.
Anche quando lo scopo era quello di creare la prima mappa scientifica, più precisa possibile, l’inganno restava dietro l’angolo. Come nel caso di Diogo Ribeiro, cartografo spagnolo di origine portoghese che nel 1527 disegnò la Padron Real, una mappa ufficiale (e segreta) usata come modello per tutte le mappe presenti sulle navi spagnole. Molto dettagliata per l’epoca, forniva comunque una visione iberocentrica del mondo, mentre le proporzioni di alcune regioni risultavano errate, come nel caso dell’India troppo piccola rispetto alla realtà. È forse proprio questa mappa a dare il via all’impostazione per cui l’Europa si trova sempre al centro del mondo nelle mappe del vecchio continente.
C’è poi il problema dei dettagli e, quindi, delle dimensioni. Per avere una mappa veramente precisa del mondo questa dovrebbe essere di dimensioni tali da non poter più venire maneggiata. Lo ha raccontato, ironicamente, anche Borges nella novella dal titolo Sull’esattezza della Scienza, incentrata proprio sull’ossessione della precisione. Eccone uno stralcio significativo. “In quell’Impero, l'Arte della Cartografia raggiunse tale perfezione che la mappa d’una sola provincia occupava tutta una città, e la mappa dell'impero, tutta una provincia. Col tempo, codeste Mappe Smisurate non soddisfecero e i Collegi dei Cartografi eressero una Mappa dell'Impero, che uguagliava in grandezza l'Impero e coincideva puntualmente con esso. Meno dedite allo studio della cartografia, le generazioni successive compresero che quella vasta mappa era inutile e non senza empietà la abbandonarono alle inclemenze del sole e degl’inverni. Nei deserti dell'Ovest rimangono lacere rovine della mappa, abitate da animali
e mendichi; in tutto il Paese non è altra reliquia delle Discipline Geografiche.”

L’imprecisione, il dubbio, l’ignoto, sono più intriganti delle certezze, per questo motivo le mappe incomplete e imprecise risultano più affascinanti di quelle perfette (ammesso che esistano). Lo racconta Michaal Chabon nel suo libro Mappe e Leggende. “È ben noto il potere che hanno le mappe di accendere l’immaginazione. È come osservare il Marlow di Joseph Conrad (dal romanzo Cuore di tenebra, ndr), non c’è mappa più seducente di quella segnata – come la cartina scolastica dell’Africa con i colori delle bandiere che lo condannò alla sua disperata ricerca – da dubbi e congetture, dallo spazio bianco del territorio inesplorato.” 
E l’incertezza (o la certezza fantastica) domina in un altro genere di mappe, quello dedicato a mondi immaginari di cui diventano le fondamenta. Pare infatti impossibile creare un nuovo mondo senza prima averne tracciato sulla carta i contorni, vergato con l’inchiostro i nomi dei suoi luoghi più significativi, delineato catene montuose e corsi d’acqua. Come visualizzare nella mente il favoloso mondo de Il Signore degli Anelli, con la pletora di creature e culture che lo popolano, senza aver visionato la suggestiva mappa della Terra di Mezzo disegnata da J. R. R. Tolkien? La fantasy, in particolare, sembra non potere fare a meno delle mappe, in grado, in un solo colpo d’occhio, di dare forma (e quindi realismo, o quantomeno verosimilità) a un intero costrutto fantastico. Ecco quindi le mappe di Harry Potter e quelle delle terre Hyboriane della saga heroic fantasy di Conan, il nerboruto barbaro inventato da Robert E. Howard.

Poi ci sono le mappe dedicate non a mondi, continenti, regioni, ma a luoghi più limitati, definiti. Luoghi che celano oggetti particolari, manufatti preziosi, ricchezze immense. Sono le mappe del tesoro, tanto care alla narrativa avventurosa. È persino superfluo citare la celeberrima mappa dell’Isola del tesoro, punto di partenza e cardine del romanzo di Robert Louis Stevenson. Ma nella fantasia degli scrittori, fumettisti inclusi, non è sempre necessario che le mappe siano disegnate su carta, quando possono trovarsi su teschi, oppure tatuate sulla pelle di qualche personaggio. Espediente, quest’ultimo, utilizzato anche in diversi film. Come nello spaghetti western Ringo, il volto della vendetta, nel quale due ex detenuti portano tatuata sulla schiena la metà di una mappa che porta a un tesoro nascosto e che, quindi, può essere ritrovato solo unendo le due parti.   

La mappa come passaporto dell’avventura, come punto d’arrivo e di partenza, come biglietto per un viaggio periglioso. In fondo, il vero tesoro sono le mappe stesse: da trovare, studiare, comprendere, nascondere, interpretare. E, alla fine, che il tesoro venga trovato o meno, resta la mappa, affascinante e misteriosa, depositaria di mille informazioni e mille segreti.