mercoledì 28 novembre 2012

IL RE DEGLI SCARABOCCHI


Non sempre le immagini devono essere accompagnate da parole, anche nel caso di narrazione. La narrazione muta è una tecnica fondata al medesimo tempo su istintività e profonda padronanza del mezzo. Si parla di disegni, ma il discorso è facilmente allargabile ad altri mezzi di espressione, come la fotografia e il cinema. Chiunque abbia provato almeno una volta l’esperienza di visionare, per esempio, un film in una lingua a lui sconosciuta e pur ne abbia tratto elementi comprensibili e, soprattutto, fortemente emotivi si sarà reso conto della potenza evocativa e narrativa delle immagini a prescindere dalla loro interazione con qualsiasi forma linguistica. Ciò vale ancor di più con le immagini disegnate, che talvolta travalicano la realtà e talvolta ancora la distillano attraverso occhi/mente/mano dell’autore fornendone una visione personalissima. Un solo, singolo disegno è in grado di raccontare moltissimo, senza ausilio di testo. Anche per questo motivo i cosiddetti sketchbook, o libri degli schizzi per dirla in italiano, possono rappresentare, ovviamente a seconda del loro autore, un’inesauribile fonte di spunti narrativi senza che vi sia proferita, pardon, scritta parola alcuna. Le immagini di Shaun Tan, artista australiano nato nel 1974, sono uno dei migliori esempi di quanto detto sopra. Nel volumetto “Il re degli uccelli e altre creature” sono raccolti almeno duecento suoi disegni nati nei modi e per i motivi più svariati, ma certamente non per la pubblicazione. Si tratta infatti di materiali molto differenti tra loro, che vanno da idee tracciate velocemente sulla carta a spunti per lavori da sviluppare, da bozze di progetti a scarabocchi tracciati durante viaggi in aereo, da intuizioni fulminee a studi per illustrazioni, da layout per fumetti a disegni dal vero. Una moltitudine di immagini che, tuttavia, non sono che una minuscola parte dell’enorme serbatoio di spunti visivi sfociati dalla fantasia dell’artista. Ma ciò che risulta maggiormente interessante è che ognuno di loro riesce a raccontare qualcosa, a suggerire un’idea che va oltre i tratti di cui è composto. Nel curioso schizzo di un uccellino meccanico che saltella allegramente c’è il seme di tutto un modo fatto di creature artificiali, l’incipit di un universo alternativo con regole differenti dalle nostre. L’immagine a matita di un palombaro, invece, richiama alla mente avventure da 20.000 leghe sotto i mari, sussurra misteri acquatici che non possono essere svelati tramite le parole. Il disegno di un padre che tiene per mano il figlio suggerisce un’intimità difficilmente spiegabile a voce. Le immagini raccontano, parlano, gridano, talvolta persino suonano, accompagnate da musiche silenziose. Inoltre, i messaggi che inviano possono essere differenti a seconda di chi li riceve: il lettore, o in questo caso l’osservatore. Poiché la parte finale del messaggio è lasciata al ricevente, dipendono anche dalla sua sensibilità, dalla sua cultura, dal suo background emotivo l’entità e i contenuti di quegli stessi messaggi. Shaun Tan lancia dei segnali, anche involontari, abbozza dei mondi, comincia delle storie, ma tutto ciò che disegna deve trovare compimento ultimo nella testa di chi guarda. Perché, secondo le parole dello stesso Taun, “nei bozzetti c’è anche una meravigliosa, innata vaghezza” e “un bozzetto è buono quando riesce a essere sia chiaro che ambiguo.” 
Restando sull’autore, è evidente una sua propensione al fantastico, nonché una predilezione per i soggetti animali. Una “fascinazione per mondi e creature immaginarie”, scrive in una delle brevi introduzioni ai capitoli. Le due passioni si fondono dando vita a bizzarri esseri, come dei graziosissimi gatti lucertola, estremamente comunicativi. La creazione di nuovi esseri, porta con sé l’obbligo di strutturare interi nuovi mondi in cui farli muovere. Mondi di cui si intravedono scampoli, squarci di paesaggi, pezzi di città, persino alfabeti inventati. Lo sketchbook è una via di mezzo tra la tavolozza di un pittore e la creta di un demiurgo al lavoro su una nuova creazione con la “c” maiuscola. 

Shaun Tan, Il re degli uccelli, Elliot, pp. 128, euro 16,00





martedì 27 novembre 2012

PERICOLO GIALLO!


Commando è una delle più longeve riviste inglesi dedicate ai fumetti di guerra, con oltre 4.500 numeri al proprio attivo. Oltre alla pubblicazione settimanale del magazine, di piccolo formato e con una storia completa in 64 pagine, il suo editore ha recentemente dato vita a delle raccolte tematiche, volumetti brossurati contenenti ognuno tre fumetti incentrati su temi o eserciti particolari. Tra loro vi è anche “Banzai!”, che come lascia intuire il titolo è dedicato a tre avventure che vedono eroici soldati britannici scontrarsi con l’esercito imperiale giapponese. Unico difetto del volume è proprio questo, la smaccata partigianeria per le forze inglesi a discapito di quelle nipponiche, dipinte il più delle volte come arroganti e poco capaci, se non peggio. Da un lato la scelta è comprensibile, dato che la storia (con la esse maiuscola) è scritta dai vincitori e che la pubblicazione è inglese, ma alla lunga le trame rischiano di diventare ripetitive e l’immagine degli avversari stereotipata. Comunque sia, i fumetti sono come sempre di buona qualità, accurati nella riproduzione di dettagli bellici (dalle divise alle armi fino ai mezzi) e rinvigoriti dall’attenzione al lato umano, anche se sotto i riflettori vi sono sempre militari inglesi. Si tratta, insomma, di una buona lettura per gli amanti del genere, attualmente non molto popolare in Italia (mentre lo era fino a una ventina di anni fa) ma che ancora riscuote ottimi consensi tra i lettori anglosassoni. Il basso prezzo di copertina fa il resto, assicurando a Commando e ai suoi volumi un roseo futuro tra i fischi delle pallottole e le ardite azioni dei suoi personaggi, sempre diversi eppure sempre uguali a se stessi. 

LA SCHEDA 
Titolo: Commando: Banzai! 
Autori: AA.VV. 
Editore: Carlton Books Limited 
Numero pagine: 208 
Prezzo: 4,99 sterline

domenica 18 novembre 2012

FATE E ALTRE CREATURE FANTASTICHE


Il giovane Tristan è innamorato della bella Victoria, e pur di conquistarla promette di portarle una stella cadente. Per questo si avventura nel regno delle fate che sta aldilà del "muro", cominciando un lungo viaggio che sarà prodigo di incontri, pericoli, magie. Neil Gaiman conferma le sua eccezionali doti di narratore del fantastico. In Stardust, in fondo, non troverete nulla di nuovo, ma tante situazioni e figure classiche della letteratura faerie: streghe, alberi parlanti, intrighi di palazzo, vascelli volanti, uomini trasformati in animali, unicorni, incantesimi e molto altro ancora… Tuttavia Gaiman mescola il tutto con grande sapienza, creando un affresco fantastico che diventa quasi un compendio del genere. La storia parte, di divide in tanti rivoli con differenti protagonisiti e in seguito, magicamente, torna a ricomporsi come pezzi di un puzzle, per un happy end non privo di malinconia. E se le parole non vi incantano abbastanza, vi sono le splendide illustrazioni di Charles Vess (solo nell'edizione di lusso, però), che di reami incantati più volte nel corso della sua carriera ha dimostrato di essere un eccellente pittore. Un libro da leggere e poi custodire gelosamente, magari per riprenderlo in mano in una sera d'inverno davanti al fuoco di un camino.

Neil Gaiman & Charles Vess, Stardust, Planete DeAgostini, euro 20,00

venerdì 16 novembre 2012

DI MADONNE E CROCIFISSI


Ieri sera giacevo "imbalsamato" in un letto di ospedale in attesa di radiografie che dicessero se mi ero rotto la spina dorsale. Non temete, non vi annoierò con questioni di salute personale, ma da tale posizione, e non potendo muovermi, avevo una visibilità molto limitata. In pratica vedevo solo una scritta a mano che diceva "W.C.", su foglio A4 strappato e scocciato, e una bella immagine in stile bizantino di Madonna col bambino (molto simile a quella in questo post). Nessuno crocifisso. Personalmente delle diatribe che ogni tanto imperversano sui media sull'opportunità di collocare crocifissi in scuole, ospedali e luoghi pubblici non me ne è mai fregato nulla. Sono ateo ma non mi da alcun fastidio se un credente desidera avere un'immagina sacra a portata di vista (e questo vale anche per simboli di religioni non cristiane). Tuttavia, il crocifisso con Gesù inchiodato mi ha sempre un po' infastidito. In fondo si tratta di un uomo (o un dio, non fa differenza) torturato e sulla via della morte, porlo in un'aula piena di bambini o in una stanza d'ospedale con gente che soffre non mi pare molto indicato. Quella immagine della Madonna, invece, ispirava una grande serenità, trasudava amore materno, ed era esteticamente piacevole. Chissà, forse sono solo fissazioni di uno scribacchino che per vivere si occupa di immagini, ma se un giorno dovessi morire (ieri l'ho scampata) con un'immagine davanti preferirei di gran lunga quella della Madonna col bambino.  

domenica 11 novembre 2012

IL "SOGNO" AMERICANO


New York di inizio secolo, un sogno per molti immigrati provenienti da tutto il mondo alla ricerca di una vita migliore. Charyn e Munoz mostrano l'altra faccia di questo sogno, i quartieri etnici, la povertà, la prostituzione, un mondo dove è difficile sopravvivere e il "sogno" premia solo i più forti i più duri, i più spietati, mentre, per dirla come il protagonista, è inutile cercare Dio, “non lo troveresti, ha traslocato dai democratici. È troppo occupato a contare i soldi per lanciare fulmini”. Si è fatto un po' cinico insomma Stefan Wilde, conosciuto anche come lo Tsarèvitch poiché bada allo stabile chiamato Panna Maria, nel West Side, un palazzo abitato solo da polacchi che al quinto piano ospita un bordello. Un microcosmo con le proprie regole. Ma anche a Stefan può capitare di sognare e di scordare le ferree leggi della realtà, quando si innamora della bella Kitty, figlia del leader del partito repubblicano. Nulla di più sbagliato, neanche nel "sogno" americano c'è spazio per un matrimonio tra un portinaio e una principessa, così il piccolo protagonista ripiomba nel mondo reale a suon di botte. Attraverso la storia minimalista di Stefan viene narrato uno spezzone di storia degli Stati Uniti, dalle finestre del Panna Maria possiamo osservare un pezzo di New York, seguendo il cuore di Stefan siamo partecipi di un piccolo dramma. E sono i dialoghi stringati ed essenziali di Charyn e i sapienti bianchi e neri di Muñoz a visualizzare questa storia recitata da una manciata di personaggi carichi di umanità, con i volti solcati dalle rughe e gli sguardi rivelatori. Delle belle tavole ordinate, immerse in un'atmosfera triste in cui il "sogno" lascia a poco a poco spazio alla realtà che tuttavia, se ci si accontenta, può essere meno sgradevole di quanto ci si aspettava, mentre in un vignetta c'è anche spazio per citare Yellow Kid.

Jerome Charyn/José Muñoz - Panna Maria - Hazard Edizioni - euro 10,30

domenica 4 novembre 2012

4 NOVEMBRE

“Il fruscio delle carte da gioco, il muoversi delle mani, il murmure monotono del cronofono nel soffitto della Caserma del fuoco «… una e trentacinque, mattino, martedì, 4 novembre… una e trentasei… una e trentasette, mattino…» Il lieve battito delle carte sul piano sudicio del tavolo, tutti i rumori raggiungevano Montag dietro i suoi occhi chiusi, dietro la barriera che aveva eretto momentaneamente. Poteva sentire la Caserma del fuoco piena di scintillii, di luminosità e di silenzio, di colori bronzei, i colori delle monete, dell'oro, dell'argento. Gli Uomini invisibili dall'altra parte della tavola stavano sospirando sulle loro carte, in attesa di «… una e quarantacinque…» e la voce del cronofono si rattristava sulla fredda ora di un freddo mattino di un ancor più gelido anno.”

tratto da "Fahrenheit 451" (1953), di Ray Bradbury

sabato 3 novembre 2012

UN MONDO DI GHIACCIO



"Whiteout" in un certo senso rappresenta un balzo indietro nel tempo, alla riscoperta del fumetto avventuroso e poliziesco americano, delle tavole in bianco e nero, del disegno classico arricchito da pochi retini, dell'avventura solida e realistica. Di fronte al marasma dei supereroi belli e brutti che imperversano nel comicdom statunitense, questo è già di per sé un elemento positivo. Comunque sia, "Whiteout" è un buon fumetto, con una bella storia, dei buoni personaggi femminili (senza il bisogno di essere appariscenti) e un disegno che non fa gridare al miracolo, ma valido e funzionale. Ambientato nel claustrofobico mondo dell'Antartide, dove tutti sono prigionieri del gelo e di un bianco accecante, mette in scena la misteriosa morte di un uomo e le conseguenti indagini dell'agente federale Carrie Stetko. Ed è proprio questo personaggio a rappresentare il miglior pregio del volume. "Punita" con la relegazione nella "ghiacciaia" (così viene chiamata l'Antartide), Carrie è un character ricco e sfaccetto, con un peso sulla coscienza e un duro lavoro da svolgere. lo svolgerà fino in fondo, mettendo insieme un indizio alla volta fino all'individuazione del colpevole.
   

Greg Rucka e Steve Lieber, Whiteout, BD, euro 12,00  

venerdì 2 novembre 2012

VITE MAGICHE



Come tutte le definizioni, anche quella di "romanzo a fumetti" quando abusata rischia di perdere di contenuti, divenendo una frase vuota da lancio pubblicitario. Non è però così per Giara di stolti, che tale sottotitolo può esporlo senza timore di presunzione. Jason Lutes imbastisce una storia narrata con sapienza e disegnata entro la gabbia rigida di una tavola a quattro strisce: nessuna splash page, nessuno scontorno, nessuna vignetta che "esplode", solo una sequenza di rettangoli all'interno dei quali scorre con un ritmo uniforme, ma mai noioso, la vicenda di Ernie e della piccola umanità con cui condivide pezzi della propria vita. Ernie è un mago fallito, perché "questo non è più un mondo per i maghi", spiega il suo mentore destinato a una casa di riposo per anziani. Deve quindi mettere insieme i brandelli di un passato doloroso e di un presente miserevole, per cercare di costruirsi un futuro migliore. E intorno a lui altre persone, per cui la vita è una lotta quotidiana, piena di privazioni talvolta alleviate da una piccola magia, un trucchetto da maghi. Girando la prima pagina di questo volume entriamo nella vita di un uomo, girandone l'ultima ne usciamo un po' a malincuore, comprendendo che prima e dopo quel breve tragitto condiviso vi sono milioni di eventi grandi e piccoli che devono ancora essere vissuti, e narrati.
   

Jason Lutes, Giara di stolti, Black Velvet, 10,00 euro

martedì 9 ottobre 2012

LA LINEA SEMPRE SULLA BRECCIA

Il Servizio Sanitario Regionale dell'Emilia Romagna sta usando la Linea di Osvaldo Cavandoli quale testimonial per un programma di prevenzione dei tumori del colon-retto. Il personaggio, quindi, appare sul sito della Regione, ma anche su opuscoli distribuiti nelle Asl, ospedali, ecc., con uno slogan che gioca proprio sul suo nome: "la linea giusta è prevenire".


La Linea nasce nel 1969. Racconta lo scomparso Cavandoli: “Avevo visto un film svedese fatto con un filo di lana che si assottigliava facendo delle figure, e mi sono detto ‘perché non fare un segno diritto, fisso, ed un personaggio del tipo delle ombre cinesi in cui non c’è dettaglio interno?’”. E prosegue: “poi il fatto di fare una roba ‘piena’ mi sembrava troppo pesante e ideai Mr. Linea facendo solo il contorno, e allora, carta su carta, provai, dicendomi ‘Semplifichiamo… Proviamo a far nascere un personaggio da una linea…"
La sintesi “totale” da cui nasce il personaggio ha qualcosa di geniale, ma come spesso accade le idee innovative faticano a essere accettate. Così, il nuovo nato non sembra interessare le case di produzione del tempo, fino a quando non viene visto da Emilio Lagostina, titolare dell’omonima fabbrica di pentole. Appassionato d’arte, Lagostina ne rimane subito colpito e decide di provare a utilizzarlo come testimonial. Stabilita la grafica, però, resta determinare il sonoro. Inizialmente Cavandoli pensa di realizzare animazioni senza parole, usando solo la musica per far esprimere il personaggio, ma la cosa sembra non funzionare, in questo modo la La Linea non è abbastanza espressivo. La soluzione arriva col suggerimento di un amico, che presenta a Cavandoli un ragazzino di nome Carletto Bonomi. Quest’ultimo è in grado di fare delle vocette strane, esprimendosi anche attraverso suoni piuttosto che con le parole. Nasce così la particolarissima parlata in stile grammelot, basata cioè su un assemblamento di suoni, onomatopee, fonemi privi di un significato preciso ma assai comunicativi, specie se accompagnati da espressioni facciali e gesti eloquenti. In realtà di tanto in tanto qualche parola comprensibile fa capolino nel guazzabuglio di suoni emessi da La Linea, soprattutto termini inglesi e milanesi, ma sono la cacofonia e il suo ritmo a farla da padroni, assieme a una sarabanda di risatine e pernacchie. 
Inizialmente il personaggio avrebbe dovuto chiamarsi Mr. Linea, ma nei primi cortometraggi appare come Agostino Lagostina, nome che viene eliminato dopo la prima serie di caroselli per divenire il definitivo La Linea. Il suo aspetto è molto semplice, una sagoma dotata di braccia e mani con quattro dita (tipiche dei cartoni animati) e un evidente nasone. Col tempo subisce una lieve evoluzione grafica, abbellendosi un pochino ma rimanendo sostanzialmente lo stesso. Nonostante il nome al femminile, La Linea è un personaggio maschile, come ben si comprende dai turbolenti rapporti col sesso debole. Ma è il carattere il suo elemento di forza. Vivace, borbottone, persino irascibile, La Linea compensa le carenze linguistiche con un’esuberanza notevole, accompagnata da una gestualità esasperata. Non è tipo abituato ad arrendersi e di fronte alla strada che si interrompe davanti a se per mancanza di tratto, o a qualsiasi altro ostacolo che si frapponga al suo cammino, si esibisce in una serie di vistose lamentele che provocano l’intervento della Mano di Cavandoli, pronta a disegnarli strumenti utili a trarsi d’impaccio. Tutto sommato, a parte le continue vicissitudini cui è sottoposto per motivi narrativi, pare felice della propria esistenza, che trascorre più che altro camminando, fischiettando ed esprimendosi con l’inconfondibile grammelot. Per essere solo una linea, La Linea ha certamente un’esistenza movimentata e piena di avventure. Oggi è anche socialmente utile, grazie alla campagna citata in apertura, riconoscimento anche di una popolarità che va oltre gli appassionati di animazione e di fumetto.



Nelle immagini: vignetta e testata della campagna di prevenzione, Cavandoli col suo personaggio, la tavola di un fumetto.

mercoledì 19 settembre 2012

I 100 ANNI DI TARZAN


“Mi sono sempre chiesto come cominciai a scrivere.” Con queste parole Edgard Rice Burroughs (1875-1950) comincia un breve e autoironico articolo apparso nel 1929 su The Washington Post, e continua: “La risposta migliore che posso dare a questo quesito è che avevo bisogno di soldi. Quando iniziai a scrivere avevo trentacinque anni e tutte le imprese in cui mi ero cimentato fino ad allora erano fallite.” In effetti, la vita di Burroughs è stata un susseguirsi di professioni che andavano dall'operaio al poliziotto ferroviario, dal cow-boy all'impiegato, tra le quali si inserì anche l'infruttuoso tentativo di essere ammesso all'accademia militare di West Point. L'idea di scrivere romanzi, inizialmente praticata senza grande entusiasmo, nacque in lui in uno dei numerosi periodi di personale crisi economica, quando doveva ingegnarsi per mettere insieme il pranzo con la cena, per se stesso e per la propria famiglia. “Avevo passato al setaccio alcune riviste di narrativa e mi ero convinto che se quegli autori venivano pagati per scrivere le sciocchezze che avevo letto, io potevo scriverne di migliori.” I magazine che dipinge con fin eccessiva ironia Burroughs, che d'altra parte non è mai stato molto tenero neanche con le proprie opere, sono i pulp. Si tratta di pubblicazioni a basso costo che negli Stati Uniti hanno proliferato dagli ultimi anni del diciannovesimo secolo fino gli anni Cinquanta del ventesimo, conoscendo però il loro massimo splendore tra gli anni Dieci e i Quaranta. Lo stesso termine con cui vengono designati, pulp ("polpa"), ne indica la povertà materiale, dato che erano stampati su una carta molto scadente, ottenuta con la parte più povera degli alberi, la polpa appunto. Checché ne dicano i detrattori, però, non erano scadenti i loro contenuti. Certo non si trattava di alta letteratura, ma i romanzi e i racconti che vi venivano pubblicati erano una sicura fonte di intrattenimento e meraviglia: storie di gangster e di cow-boy, di avventure spaziali e fantasy, di spie e di eroi mascherati, di battaglie aeree e di invasioni aliene. Sulle pagine dei pulp sono nati centinaia di personaggi, molti dei quali destinati a essere sfruttati per decenni da altri media (fumetto, cinema, televisione) e tra cui citiamo solo Conan di Robert E. Howard, Horatio Hornblower di Cecil S. Forester, The Shadow di Walter Brown Gibson. Ma torniamo alle parole di Burroughs e alla narrazione dei suoi esordi: “Non avevo mai incontrato un editore o un autore o un proprietario di giornale. Non avevo la minima idea di come fare per sottoporre una storia a un editore e ignoravo quale compenso dovesse spettarmi. All'oscuro di tutto questo, non potevo certo pensare che potesse essere conveniente proporre a un editore metà di un romanzo, ma fu proprio quello che feci. Thomas Newell Metcalf, che era allora il direttore editoriale della rivista The All-Story dell'editore Mursey, mi scrisse che gli era piaciuta la prima parte della storia che gli avevo inviato, e che se la seconda era buona come la prima avrebbe potuto pubblicarla.” E in effetti così è stato. Quel primo romanzo fu intitolato Under the Moon of Mars ("Sotto le lune di Marte", ma in una successiva edizione divenne A Princess of Mars). Burroughs, tuttavia, era così poco convinto della sua nuova professione che decise di firmarlo con uno pseudonimo, Normal Bean, erroneamente compreso dai correttori di bozze della casa editrice che lo cambiarono in Norman Bean, suscitando qualche irritazione da parte dell'autore. Comunque, Burroughs mantenne il suo lavoro da impiegato e allo stesso tempo continuò a scrivere nei ritagli di tempo, più che altro la sera e di domenica. La nuova opera a cui lavorava era Tarzan of the Apes ("Tarzan delle scimmie") e venne scritta su fogli di scarto, ritagli, retri di carta intestata. Burroughs non era ancora deciso: “Non pensavo fosse una storia davvero buona, e dubitavo avrebbe venduto.” Ma The All-Story lo smentì nuovamente e, dopo averla accettata con entusiamo, la pubblicò per intero sul numero dell'ottobre del 1912. Quella data è da considerarsi uno spartiacque sia nella vita di Burroughs, che da quel momento cominciò a nutrire maggiore fiducia nella propria carriera di scrittore, sia in quella della letteratura pulp. Proprio così, quelle riviste che Burroughs aveva descritto con così poca benevolenza ebbero una grossa spinta anche grazie al successo raggiunto dal suo Tarzan, a tal punto che molti studiosi di questo genere di pubblicazioni lo considerano il personaggio più popolare mai apparso sui pulp e lo giudicano responsabile dell'esplosione di vendite degli anni successivi. Sta di fatto che per soli quindici centesimi i lettori dell'epoca, che non potevano ancora contare sulla televisione mentre cinema e fumetti erano agli albori, entrarono in possesso di un'avvincente storia in cui un nobiluomo inglese – che inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi John Clayten, poi Lord Bloomstoke, e infine divenne Lord Greystoke perché sembrava più aristocratico – si ritrovava ancora infante nella giungla africana e veniva cresciuto dalle scimmie. La copertina di quello storico The All-Story fu realizzata da Clinton Pettee, illustratore di alcuni numeri del magazine, che in seguito avrebbe firmato anche un'immagine per un altro romanzo di Burroughs: The Cave Girl (su The All-Story del luglio 1913). Pettee fu il primo a dare forma alle parole di Burroughs, e il suo Tarzan appare leggermente differente da quello ormai entrato a far parte dell'immaginario collettivo. Col suo gonnellino di paglia, i capelli lunghi e una fascia attorno alla fronte fu però il modello a cui si ispirarono il primo film del 1918, dove il ruolo di Tarzan fu affidato a Elmo Lincoln, e il primo fumetto del 1929 a firma Harold Foster. Tornando al romanzo, Burroughs cercò di farlo ripubblicare sotto forma di libro, ma dovette incassare diversi rifiuti, tra cui quello del'editore McClurg. Tarzan of the Apes fu però serializzato nel 1913 sul quotidiano The Evening World Daily Magazine, riscuotendo nuovamente grandi consensi, accompagnati da richieste di raccolta in volume. Così, nel 1914, fu proprio la casa editrice McClurg a farsi avanti con Burroughs. Il volume cartonato di Tarzan of the Apes uscì il 17 giugno del 1914, vendendo oltre un milione di copie. L'ascesa di Tarzan, di cui altri romanzi erano già stati pubblicati su The All-Story, era ormai inarrestabile.
Molto, in seguito, fu scritto sulle possibili fonti di ispirazione di Burroughs nella stesura dell'opera, andando a scomodare il nobile selvaggio di Jean-Jacques Rousseau, o Il libro della giungla di Ruyard Kipling. Lo stesso Burroughs sottolineò che era stato colpito dall'immagine di Romolo e Remo, cresciuti da una lupa, legame che forse aveva traslato sulle scimmie. Molto più probabilmente, il cantore di Tarzan non aveva consapevolmente "copiato" nessuno, semplicemente, col solo ausilio di un libro sull'Africa nera, si era lasciato trasportare dalla fantasia, qualità di cui era abbondantemente dotato vista la sua prolifica produzione. Del solo Tarzan, Burroughs scrisse infatti 22 romanzi, 15 novelle e due racconti per ragazzi, a cui si aggiunge il romanzo Tarzan the Lost Adventure rimasto incompiuto e recentemente completato da Joe R. Lansdale. Il successo del re della jungla, inoltre, scatenò schiere di imitatori che diedero vita a una moltitudini di tarzanidi dai nomi pittoreschi, tra cui Matalaa, Ka-Zar, Ki-Gor e la bella, ma temibile, Sheena, Queen of the Jungle. Il più abile degli scrittori che si rifacevano a Burroughs era considerato Otis Adelbert Kline, tra l'altro un suo ammiratore, che diede vita a Tam, Son of the Tiger, per la rivista Weird Tales, e a Jan of the Jungle per Argosy. Curiosamente, alcune di questa pubblicazioni ospitarono anche storie di Tarzan, segno che la moda dei personaggi selvaggi faceva comodo anche a Burroughs e ai suoi editori. Comunque sia, a oltre novant'anni di distanza, ben pochi si ricordano degli imitatori di Tarzan, mentre ancora oggi, al cinema come nei fumetti, risuona spesso il grido del re della giungla, inventato però dall'attore e nuotatore Johnny Weissmüller. Ma questa è un'altra storia, che magari vi racconterò in uno dei prossimi post…  



domenica 9 settembre 2012

UN ADDIO A ENRICO BAGNOLI


È scomparso ieri, 8 settembre 2012, Enrico Bagnoli noto anche come HenryEnrico Bagnoli nasce a Milano il 21 agosto 1925 e, come di consueto accade ai fumettisti, comincia a disegnare sin da bambino. Ha solamente quindici anni, e ancora frequenta il Liceo Artistico, quando pubblica sul settimanale Bimbe d’Italia, dell’editore Alberto Traini, i suoi primi disegni. Si tratta di “Il principe di Roccabalda” e “Amor patrio”, lunghe storie a vignette con didascalie scritte da V. da Varese. Poco dopo, nel 1942, si cimenta con storie simili, ma di ambientazione storica (Roma imperiale) per la testata Albo Impero della Casa Editrice Impero. Vista la giovane età e una certa inesperienza, lo stile di Bagnoli risente molto delle influenza di artisti ben più famosi e per lui affascinanti. Sono nomi del calibro di Alex Raymond, Kurt Caesar, Walter Molino e Achille Beltrame a forgiarne il gusto e, di conseguenza, il tratto. È con queste influenze e con questo bagaglio di esperienze che a 17 anni approda all’Editrice Audace di Gianluigi Bonelli, che gli affida alcune copertine della quinta serie di Audace Supplementi e alcune storie brevi, tra cui “Il tempio del mistero”, con protagonista Furio (ragazzone dotato di micidiali pugni, creato dallo stesso Bonelli), e “Gli adoratori del diavolo”, avventura incentrata sulla contrastata ricerca del Sigillo del Drago a opera di un eroe italoamericano, Tony Brelli, tra avventurieri e sceicchi. In tale ambito è soprattutto l’influsso di Alex Raymond a spiccare nelle belle tavole di Bagnoli.

Nel 1944 passa a disegnare per la testata Le più belle avventure, dell’Editoriale Subalpino, il lungo ciclo avventuroso Il fiore inaccessibile, su sceneggiature di Luciano Pedrocchi e di Cesare Solini.
Con Pedrocchi firma anche le serie a puntate Il terrore di Allagalla e Il Solitario, pubblicate sul settimanale Dinamite.
È sempre con Pedrocchi che nel 1946, dopo una breve esperienza alla Casa Editrice Universo, Bagnoli passa a lavorare per il settimanale Topolino disegnando la storia Sunda Apasunda.
Nello stesso periodo dà il via anche alla sua attività di illustratore, realizzando, insieme a Giovanni Benvenuti, le immagini che accompagnano rubriche di approfondimento sul West e sui suoi protagonisti pubblicate su Pecos Bill della Mondadori.
 Tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta  Bagnoli lavora per l’estero, arrivando a trasferirsi per un certo periodo negli Stati Uniti. È in quel Paese ricco di opportunità per i disegnatori che firma parecchie storie per la casa editrice Fiction House, western che appaiono sul magazine Rangers Comics e avventure di tarzanidi per Jungle Comics. Per la testate Daring Adventures, della Approved Comics, disegna “The Son of Robin Hood”, portando in scena la spettacolare abilità del mitico arciere.
In questa fase è ancora il disegno classico, di ispirazione statunitese, a guidare la sua mano, portandolo alla realizzazione di tavole di indubbio gusto estetico.
Come altri autori italiani, Bagnoli lavora inoltre per la francese Dargaud (per il setteminale femminile A Tout Coeur) e per l’inglese Fleetway, producendo soprattutto storie rosa, alcune delle quali vengono pubblicate in seguito anche in Italia su testate quali Giovinezza.
Qualche anno più tardi inizia a disegnare anche per la tedesca Springer Verlag, che gli commissiona storie scritte da un altro italiano, Alfredo Castelli, in particolare quelle di Mark Merlin, un prestigiatore, aiutante della polizia di San Francisco, che, curiosamente, viene soprannominato Il Detective dell'Impossibile, lo stesso nomignolo del futuro Martin Mystère, altra creatura di Castelli.
Durante tutto questo tempo, prosegue la collaborazione con editore italiani e negli anni Sessanta, probabilmente anche grazie alla sue esperienze americane, è in grado di lavorare per mondadori sulle serie superoistiche Superman e Batman, grazie alle sceneggiature di Pier Carpi.
Del 1963 è la serie Mike O’Hara, apparsa a puntate su ABC dei Ragazzi, della Società Editoriale Attualità e seguita, a partire dal marzo del 1964, dal racconto a fumetti della vita di Elvis Presley e dei Beatles. L’esperienza viene ripetuta qualche mese più tardi per gli Albi di Bolero Film, per i quali Bagnoli scrive e disegna una serie di biografie a fumetti, questa volta intercalate da fotografie, di celebri artisti della canzone italiana.
Sempre nella prima metà degli anni Sessanta illustrata, per la casa editrice Il Carroccio, diversi volumi avventurosi di Emilio Salgari, confermando le proprie doti di illustratore.
Nel 1965 Bagnoli mette in secondo piano l’attività di disegnatore per dirigere alcune testate della Mondadori: Nembo Kid (nome italiano di Superman), Batman e i Classici dell’Audacia, una delle prime pubblicazioni interamente dedicate ai fumetti della scuola franco-belga. Dopo la chiusura di ques’ultima, nel 1968 è la volta di tre effimere testate, chiuse dopo solo due numeri. Si tratta di Nic Cometa, serie disegnata da Sergio Zaniboni e dallo stesso Bagnoli che si firma T. Anthony, Dyno, resa graficamente da Raffaele Paparella, e Strippy, la ragazza detective, con testi di Renata Pfeiffer (P. Ren), moglie di Bagnoli, e disegni di Paolo e Piero Montecchi (Paul e Peter Montague).
Nel 1969 Bagnoli passa al gruppo del Corriere della Sera dove assume il ruolo di Assistente del Direttore Editoriale dell’Area Ragazzi. Si occupa così dell’organizzazione di diverse testate ed entra a far parte della redazione del Corriere dei Piccoli e del Corriere dei Ragazzi, poi diventato Corrier Boy, per il quale dà vita alle serie poliziesche Il Commissario Argento, Nick Carbone e Marty Ferro. Il disegno di Bagnoli si è ormai molto evoluto rispetto agli esordi e ora fa uso di un fitto trattetggio con cui dare tridimensionalità alla vignette e arricchire di sfumature ed espressività i volti dei personaggi.
Nel 1970 realizza insieme alla moglie Renata, autrice dei testi, la serie I cugini, apparsa sul mensile Il Paladino dei Ragazzi, e Tony, libretto promozionale distribuito gratuitamente ai soci del Total Club che presenta l’omonima serie avventurosa e l’umoristica Piki, Puki e Piripì realizzate in collaborazione con il disegnatore Antonio Toldo,
Negli anni Ottanta si dedica principalmente all’illustrazione lavorando per la Fabbri Editori (“La lampada di Aladino”), per la UTET (“La principessa dei nani” nella collana La Scala d’Oro) e per altri editori di scolastica ed enciclopedie. Inoltre, si specializza in ritratti di personaggi del mondo dell’economia, della finanza e della politica che vengono pubblicati sui quotidiani e sui maggiori periodici di settore.


Dal 1985 inizia la collaborazione con la Sergio Bonelli Editore firmando con lo pseudonimo Henry la storia “Mysteryland” pubblicata sul numero 43 della serie Martyn Mistere. È la prima di molte avventure del personaggio (una trentina nella serie regolare, quattro negli Extra) che beneficiano del suo disegno e, talvolta, delle sue sceneggiature, stese in collaborazione con la moglie. 

venerdì 7 settembre 2012

ISOLE MISTERIOSE (con illustrazioni di Sergio Toppi)


Per loro stessa natura, circondate dalle acque e spesso difficili da raggiungere, molte isole sono avvolte dal mistero. Luoghi lontani e favoleggiati, oppure vicini ma impervi, nel corso dei millenni sono stati al centro di voci, leggende, enigmi di ogni tipo. Reali o fantastiche poco importa: nei diari di bordo degli antichi velieri, come nei racconti dei marinai, le isole hanno un posto di primo piano, suscitando meraviglia e paura, desiderio e curiosità. Ben note, e già trattate su queste pagine, sono isole famosissime (per quanto non sempre esistite, o quantomeno provate) come quella di Pasqua o Atlantide, ma i mari e gli oceani di tutto il mondo pullulano di terre lambite dalle acque e di storie a esse collegate. Una miriade di isole in grado di fare concorrenza alle invenzioni letterarie, come l’isola misteriosa di Jules Verne, per suggestioni, pericoli, segreti e stranezze.
Come le isole fantasma, che appaiono e scompaiono rendendone difficile se non impossibile l’individuazione. Leggende? Errori di cartografia? Certamente, ma non solo. La natura beffarda talvolta si diletta nel prendere in giro gli uomini, e i navigatori in particolare, dando forma a isolette effimere, che appaiono e scompaiono con le maree o emergono e si inabissano a distanza di anni grazie a eruzioni vulcaniche. Celebre il caso dell’isola Ferdinandea, formatasi davanti al mare di Sciacca (canale di Sicilia) nel luglio del 1831. Gli attoniti testimoni videro l’isola formarsi nel giro di pochi giorni, 4 chilometri quadrati e 65 metri di altezza, e, mentre diversi stati cominciavano ad accapigliarsi per reclamarne la sovranità (dopotutto di trovava in punto strategicamente rilevante), altrettanto velocemente la videro scomparire qualche mese dopo, sgretolandosi sotto i colpi delle onde. Fece “ritorno” nel 1846 e nel 1863, ma sempre per pochi giorni.
La Ferdinandea, pur esistendo o essendo esistita, non compare su nessuna mappa navale, al contrario alcune sue “colleghe” meno credibili sono state riportate per secoli sugli atlanti. Come due isole del Pacifico, Macy e Swain, inesistenti ma segnate sul Soviet Atlas of the Pacific fino all'edizione del 1974. O come la California, che certamente esiste ma non è un’isola, eppure fu segnalata come tale per quasi tutto il Seicento.
Capitolo a parte è quello dedicato alle isole leggendarie, su cui si sono versati fiumi d’inchiostro senza che nessuno le abbia viste, a esclusione, ovviamente, dei loro scopritori che poi non hanno fatto ritorno o non hanno saputo più ritrovarle.
Il Navigatio Sancti Brendani Abbatis (“Il viaggio dell’abate san Brandano”) è un manoscritto che compare probabilmente tra il IX e il X secolo, oltre duecento anni dopo la morte del monaco di cui porta il nome. Abate benedettino irlandese, Brandano (485–577), a capo di un gruppo di monaci, si sarebbe recato in cerca della Terra Promessa o del Paradiso Terrestre, trovandolo su un’isola al largo dell’Atlantico. Secondo il Navigatio il viaggio durò sette anni e non fu privo di pericoli, con demoni, draghi, serpenti di mare e isole vulcaniche pronte a ostacolare i bravi monaci. Raggiunto il traguardo, Brandano tornò a casa, ma aveva davvero trovato un’isola? E se sì quale isola? Alcuni ipotizzano si trattò di invenzione, altri che aveva trovato l’America (e Cristoforo Colombo conosceva il Navigatio). Questa storia oggi poco nota circolò per tutto il Medioevo, portando a molteplici edizioni della Navigatio e influenzando persino Dante Alighieri. Del Paradiso Terrestre, però, nessuna traccia concreta…
Le isole lontane sono spesso dimora di creature misteriose, mostruose, gigantesche, assassine e quant’altro ancora. Secoli fa risultava difficile se non impossibile controllare le voci diffuse da esploratori e marinai che giuravano di aver visto un po’ di tutto e le cui storie, passando di bocca in bocca, si ingigantivano perdendo di credibilità anche quando nascevano da fatti reali. Emblematico il caso dello struzzo gigante del Madagascar, di cui si è fantasticato tra il 1600 e il 1800. La strana bestia, in pratica un volatile alto tre metri e incapace di volare, è realmente esistito (lo testimoniano fossili e uova), ma l’Aepyornis maximus (così battezzato dagli zoologi) oltre a essersi estinto da tempo è stato di volta in volta dipinto come sempre più grande e pericoloso, diventando persino in grado di sollevare in volo un elefante!
Sempre originaria del Madagascar, ma questa volta totale frutto di fantasia, è la pianta mangia-ragazze. Gigantesco vegetale carnivoro, con tanto di tentacoli, ingoierebbe inermi fanciulle tutte intere. A testimoniarlo è l’esploratore tedesco Carl Liche che nella seconda metà dell’Ottocento avrebbe visto coi propri occhi la pianta all’opera. Nonostante le dimensioni colossali della bugia (più grande della pianta e dello struzzo messi assieme), la storia di Liche venne riportata da vari giornali di mezzo mondo per quasi un secolo.
Se da flora e fauna, immaginaria o meno, ci si vuole spostare nel regno minerale, una bella storia con relativa creatura fantastica arriva dalle isole Marchesi, in particolare da Hiva Oa, nel Pacifico. Si narra che un tiki, ovvero un idolo di pietra, alto 2 metri e 70 e pesante circa una tonnellata, di notte se ne andrebbe a spasso a piacimento, per ritornare alla sua collocazione originale al sorgere dell’alba. Il tiki sarebbe in grado di muoversi grazie al mana, la sua energia spirituale.
Se cercate isole misteriose ma un po’ più realistiche, ve ne segnaliamo un paio che fanno al caso vostro. Una non è molto lontana, si trova infatti nella laguna veneziana. È l’isola di Poveglia, 7,25 ettari disabitati, ma dove ancora resistono vecchi edifici del passato. Ai primi dell’Ottocento, ai tempi dell’epidemia di peste nera, venne utilizzata come lazzaretto, ospitando le vittime del terribile morbo: cadaveri e moribondi. Molti veneziani finirono i loro giorni in quel luogo e si mormora che, ancora oggi, nottetempo si sentano vociare i fantasmi di quegli sciagurati che si aggirano per le costruzioni abbandonate.
Se invece preferite un’isola paradisiaca, puntate dritti verso l’Atlantico e scegliete Tristan da Cunha, un centinaio di chilometri quadrati, territorio d’oltremare del regno Unito. Definita “l’isola più remota del mondo” a causa della sua distanza da altre terre, è una sorta di piccolo paradiso. La popolazione vive in armonia, crimine e disoccupazione sono sconosciuti, se il raccolto di patate o di altri ortaggi per alcune famiglie è scarso la comunità provvede a ripartire equamente l'eventuale surplus di altri coltivatori, mentre solo dal 1999 è stata introdotta la proprietà privata. Unico difetto, i cataclismi (uragani ed eruzioni vulcaniche) che di tanto in tanto colpiscono il luogo. Dopotutto, un’isola che si rispetti un po’ di pericolo, se non di mistero, deve mantenerlo.

mercoledì 5 settembre 2012

ANCORA SERGIO TOPPI

Come promesso, ecco altre illustrazioni di Toppi per una vecchia edizione del romanzo Ventimila leghe sotto i mari. Enjoy!



martedì 4 settembre 2012

LA MARVEL IN GIAPPONE


La popolarità di pellicole cinematografiche come "Avengers" ha dato una maggiore visibilità ai personaggi Marvel in Giappone, Paese dove a parte qualche eccezione non hanno mai avuto vita facile. Nelle librerie sono apparse edizioni giapponesi di volumi Marvel (nessun periodico però) e il merchandising è molto ricco. Ecco come appare in questi giorni l'esterno di Yamashiroya, uno dei più grandi e noti negozi di giocattoli di Tokyo.

domenica 26 agosto 2012

VENTIMILA LEGHE SOTTO I MARI (con illustrazioni di Sergio Toppi)


“Corre voce che lei sia un pirata.” È con queste scarne parole che, nel film La leggenda degli Uomini Straordinari (poco felice adattamento del fumetto La lega degli straordinari gentlemen), Sean Connery nei panni di un attempato Allan Quatermain accoglie il capitano Nemo. Qualche scena più tardi, l'inglese corregge il tiro: “Forse sono stato troppo malevolo quando l'ho chiamata pirata.” E il principe indiano ribatte: “E io forse troppo benevolo quando ho detto che non lo ero.” 
Già, perchè la figura di Nemo, nata nel romanzo del 1870 Ventimila leghe sotto i mari (in originale: Vingt-mille lieues sous les mers) non è certo quella tipica del pirata settecentesco: rozzo, incolto, violento e alla guida di una ciurma di esagitati. Tuttavia, con i quasi colleghi condivide una vita passata sulla propria nave lungo i sette mari, l'avversione per la terraferma e chi la popola, una scelta di isolamento dovuta a torti subiti. Scrive lo stesso Jules Verne del suo personaggio: “Bisogna che questo sconosciuto non abbia più alcun rapporto con l'umanità da cui si è diviso. Non è più sulla terra, fa a meno della terra. Gli basta il mare, ma bisogna che il mare gli fornisca tutto, abiti e cibo. Non mette mai piede sul continente.”
In realtà, nel romanzo Ventimila leghe sotto i mari, ben poco viene svelato sul passato di Nemo e sui motivi che lo hanno spinto a vivere per sempre sul Nautilus, avveniristico sommergibile che nel mondo reale richiederà ancora molti anni prima di poter essere, almeno in parte, realizzato. È solo in un altro romanzo, L'isola misteriosa (L'île mystérieuse) del 1874, che Verne svela dettagli sul misterioso personaggio. Il capitano Nemo è il principe indiano Dakkar, figlio d'un ragià del Bundelkund e nipote dell'eroe dell'India, Tippo Saib. Sua colpa è quella di essersi ribellato al dominio inglese, conducendo contro gli occupanti del suo Paese una lunga guerra da cui esce sconfitto. E a pagare per quella ribellione sono stati i suoi amati, la moglie e i figli in primis. Per questo rinuncia alla civiltà per rifugiarsi sul suo sottomarino, costruito grazie a una intelligenza sopraffina ma anche a decenni di studi nelle università europee. Ma le perdite subite hanno creato in lui un odio sconfinato nei confronti degli inglesi, le cui navi è pronto ad affondare. Un pirata per vendetta, quindi. Nella versione originale, tuttavia, il personaggio avrebbe dovuto avere diverse origini. Verne lo aveva pensato come un polacco, fortemente intenzionato a vendicarsi dei russi che occupavano la sua patria, con una moglie morta sotto tortura e dei figli periti in Siberia. Ma su quella ipotesi il suo editore Jules Hetzel pose il veto (cosa non inusuale nel complesso rapporto di amicizia e conflittualità che legava i due), sostenendo che la Russia era amica della Francia e, soprattutto, che c'erano molti russi tra gli abbonati della rivista Magasin su cui doveva apparire il romanzo. Aggiungendo, inoltre, che in una storia per ragazzi tali eccessi vendicativi non erano indicati. Infuriato, Verne rispose: “se non posso spiegare il suo odio, manterrò il silenzio sulla causa dell'odio e su tutta la vita del personaggio, la nazionalità eccetera.” Così il nome Nemo, in latino “nessuno”, assume una doppia valenza: sottolinea la libertà del personaggio e soddisfa la volontà di Verne di non rivelarne alcunché, almeno fino alla stesura di L'isola misteriosa, ove ogni dubbio sarà sciolto. E visto che si è toccato il tema delle modifiche apportate da Hetzel, vale la pena di ricordare che quest'ultimo cambiò anche le parole pronunciate in punto di morte da Nemo. Nella versione giunta ai lettori di tutto il mondo, l'ormai vecchio capitano parla di Dio e di patria, ma nelle intenzioni di Verne avrebbe dovuto parlare di indipendenza, un tema ben più “sovverviso” per l'epoca e degno di ogni pirata che si rispetti.
Come è spesso accaduto ai romanzi di Jules Verne, al successo di Ventimila leghe sotto i mari contribuiscono non poco le illustrazioni che accompagnano il testo, una delle caratteristiche delle lussuose edizioni di Hetzel. A sostegno della sua tesi che le opere di Verne si mantengono più vive nel tempo di quelle del “rivale” Emilio Salgari, ecco che cosa scrive Umberto Eco (nella rubrica “La bustina di Minerva” su L'Espresso del 14 aprile 2005): “(…) un terzo elemento di attrazione (e il merito va in egual misura ad autore ed editore) sono le incisioni che accompagnano i romanzi. Noi devoti salgariani ricorderemo sempre con commozione le meravigliose tavole di Della Valle, Gamba o Amato, ma si trattava pur sempre di pittura, come a dire Hayez o (mi voglio rovinare) Raffaello in bianco e nero. Le incisioni verniane sono ben più misteriose e intriganti – e viene voglia di esaminarle con la lente d'ingrandimento. Il capitano Nemo che dal grande oblò del Nautilus vede il polipo gigantesco, la nave aerea di Robur irta di pennoni tecnologici, il pallone che precipita sull'isola misteriosa, l'enorme proiettile che punta verso la luna, le grotte del centro della terra sono immagini che emergono sempre da un fondo scuro, delineate per sottili tratti neri, alternati a ferite biancastre, un universo privo di zone cromatiche campite in modo omogeneo, una visione fatta di graffi, striature, riflessi abbacinanti per assenza di traccia, un mondo visto da un animale con una retina tutta sua, forse così lo vedono i buoi e i cani, o le lucertole, un mondo spiato di notte attraverso una veneziana dalla strisce sottilissime, un territorio sempre un poco notturno e quasi subacqueo, anche in pieno cielo, fatto di bulinature e abrasioni che generano luce solo là dove lo strumento dell'incisore ha scavato o lasciato in rilievo la superficie.”
Si ispira proprio alle tecniche incisorie uno dei più bei adattamenti a fumetti di Ventimila leghe sotto i mari. Realizzato nel 1992 da un Gary Gianni particolarmente ispirato per la casa editrice Dark Horse, e ahimé inedito in Italia, 20.000 Leagues Under the Sea è un albo in quarantaquattro pagine che ripercorre tutto il romanzo. Rigorosamente in bianco e nero, proprio per riproporre il sottile fascino delle stampe ottocentesche, è totalmente fondato sul sapiente uso del tratto e sulla quasi totale assenza di campiture nere. Appare evidente che Gianni ha studiato le immagini realizzate dai colleghi illustratori di oltre un secolo prima, e ne ha riproposto le fitte linee con cui creare tonalità di grigio ma anche dare forma, tridimensionalità alle figure. Ma Gianni ha fatto anche di più, ha inserito nel suo fumetto tutto il gusto ottocentesco e tipicamente verniano per la tecnologia, e ha saputo caratterizzare i personaggi con quel pizzico di ironia che contraddistingue le creature di Verne, con i baffetti impomatati o le barbe ispide, gli atteggiamenti aristocratici, le pose teatrali. Se i comic-book fossero nati in Francia a metà del 1800, certo sarebbero stati disegnati in questo modo. Tavole e vignette, poi, indugiano più che volentieri sia su armi e vascelli, disegnati con la perizia di un ingegnere d'altri tempi, che su flora e fauna, curate con l'amore di un professore universitario. Verne, certamente, ne sarebbe stato soddisfatto.
Ventimila leghe sotto i mari vanta anche un adattamento tutto italiano, frutto della collaborazione tra Roudolph (pseudonimo di Raul Traverso) ai testi e Renato Polese ai disegni, messa in atto sulle pagine del settimanale Il Giornalino. Roudolph si dimostra rispettoso dei testi di Verne, mentre Polese punta su uno stile di disegno abbastanza semplice e popolare. Innanzitutto, visto anche il pubblico di giovanissimi a cui il fumetto è rivolto, viene rispolverato il colore, mentre le matite puntano a un realismo senza troppe pretese. È soprattutto nella rappresentazione della tecnologia che si riscontrano le maggiori carenze, dato che il Nautilus e i suoi equipaggiamenti non hanno né il fascino retrò della tecnologia ottocentesca, né quello avveniristico della moderna fantascienza. Il desiderio di “modernizzare” l'opera emerge dal pacchiano costume indossato da Nemo (con tanto di “N” rossa sul petto), che sembra adatto più a un alieno di un B-movie di fantascienza che non al personaggio prediletto di Verne. Nel complesso l'opera non è affatto spiacevole, tuttavia non si può fare a meno di notare che non solo nulla aggiunge al romanzo, ma neanche riesce a riportarne sotto forma di tavole l'immortale fascino. Il capitano Nemo, insomma, riporta una parziale sconfitta, ma è pronto a rifarsi nell'adattamento di L'isola misteriosa, apparso sempre su Il Giornalino tra il 1970 e il 1971, ma questa volta affidato a Claudio Nizzi (testi) e Franco Caprioli (dsiegni), che col proprio particolare tratto “puntinato” gli restituisce la sua aura carismatica.


lunedì 13 agosto 2012

RICORDANDO JOE KUBERT

Esistono autori che, pur non essendo noti al grande pubblico, rappresentano per gli appassionati di fumetti delle vere e proprie icone, dei modelli da ammirare per i lettori e da imitare per i colleghi. Fra questi artisti di valore eccezionale va certamente annoverato Joe Kubert. Nato il 18 settembre 1926 a Brooklyn, un quartiere di New York, ha cominciato a bazzicare il mondo dei fumetti da giovanissimo: a soli undici anni di età faceva già l'apprendista, mentre il suo primo lavoro fu pubblicato nel 1939, quando aveva tredici anni. Da allora ha prodotto un numero sterminato di tavole, legate ai generi più disparati. Abilissimo nel disegnare fumetti bellici, su testi altrui ha portato sulla carta le avventure e i drammi di svariati soldati delle due Guerre Mondiali in serie della DC Comics come Enemy Ace, Sgt. Rock, Il soldato Fantasma, Il carro stregato. Nel 1952, pioniere nel campo, si è dedicato alla realizzazione di fumetti in 3-D. Poco dopo ha creato il personaggio di Tor, un cavernicolo che si muove in un mondo preistorico pieno di insidie e dalle sfumature fantastiche. L'abilità mostrata nel disegnare ambienti selvaggi e uomini in perizoma gli è servita al momento di affrontare le matite di Tarzan e di Korak, serie affidategli negli anni Settanta dalla DC Comics. Nel corso della sua prolifica carriera ha avuto modo di disegnare anche molti supereroi, tra cui Hawkman, Superman, Batman, The Punisher. Su propri testi a fine anni Ottanta crea la serie Abraham Stone, incentrata sulle avventure di un ragazzo nell'america di fine Ottocento. Negli anni Novanta è la volta di Fax from Sarajevo, graphic novel basata su fatti veri legati al dramma vissuto in quel periodo dalla ex-Jugoslavia. Kubert è famoso anche come insegnante, avendo fondato nel 1976 una scuola di fumetto, la prestigiosa Joe Kubert School of Cartoon and Graphic Art con sede a Dover (New York). Joe se ne è andato ieri, 12 agosto 2012 e già ci manca.  

venerdì 3 agosto 2012

LA SPIA VENUTA DAL PASSATO



 Ho recentemente recuperato dalla mia affollata libreria un albo firmato da due autori di Mister No, Andrea Mantelli e Roberto Diso. Nel 1977, data di uscita di “Il mestiere di Spia”, i due sono infatti al lavoro anche sul bastian contrario amazzonico da cui si concedono una pausa per un one shot ricco di azione. Al centro della vicenda vi è Ted Mulligan, uno stuntman per certi versi caratterialmente simile a Jerry Drake. È infatti un uomo d’azione che spesso agisce d’impulso, capace di cacciarsi in situazioni complicate ma anche di uscirne usando la testa oltre che i muscoli, poco incline a piegarsi alla routine e alle gerarchie. Tra un film e l’altro, nei quali si sobbarca il lavoro più pericoloso lasciando alla stella di turno la luce dei riflettori, Ted sgomina una banda di rapinatori in cui si imbatte per caso. Finito sui quotidiani, viene notato dalle alte sfere del controspionaggio Usa, colpite dalle sue doti atletiche e dalla sua prontezza di spirito, che gli propongono di diventare un loro agente. Allettato dall’avventura vera a scapito di quella cinematografica, e da un ricco stipendio, Ted accetta la proposta e viene subito gettato nella mischia in un susseguirsi di colpi di scena che rendono la lettura molto veloce. Da segnalare anche le belle tavole di Diso, ricche di azione e in taluni casi dalla composizione maggiormente libera rispetto agli standard bonelliani, grazie a vignette orizzontali e a figure che spezzano la gabbia. Nonostante i trentacinque anni sulle spalle, Il mestiere di spia rimane un albo moderno e divertente, che meriterebbe una ristampa.


LA SCHEDA
Titolo: Il mestiere di spia (albo numero 125 della Collana Rodeo)
Autori: Andrea Mantelli e Roberto Diso
Editore: Editoriale Cepim
Numero pagine: 96
Prezzo: 400 lire