mercoledì 31 gennaio 2018

OCEANI & FORESTE


Avventura: una sola parola per racchiudere infiniti mondi fatti di azione e mistero, di viaggi e scoperte, pirati e indiani, tesori e fanciulle in pericolo, mappe e briganti, fari e castelli, isole e fortini. Uno sterminato serbatoio di storie e personaggi a cui Hugo Pratt (1927-1995) ha fornito un contributo fondamentale, perlomeno in ambito fumettistico. Le radici della sua narrazione per immagini affondano però nella grande letteratura di genere, nei classici di Robert Louis Stevenson (non a caso adattò a fumetti “L’isola del tesoro” e “Il ragazzo rapito”) come nei romanzi di James Oliver Curwood (definito il “cantore del Grande Nord”). Una letteratura che ha saputo trasformare in immagini, ma che ha frequentato anche come semplice scrittore, romanzando alcuni dei suoi fumetti (Corto Maltese, Jesuit Joe, Wheeling) e curando una collana di genere.
Il volume “Capitan Cormorant e altre storie”, che riporta alla luce tre fumetti “minori” della sua vastissima produzione, è l’ennesima prova dello stretto legame che tra il fumettista, veneziano di nascita ma giramondo di indole, e l’avventura a tutto campo. Sono in particolare due gli ambiti geografici, trasformati in luoghi narrativi, nei quali sembra sentirsi maggiormente a proprio agio l’autore e riportati anche nel tomo in questione: il mare (in particolare l’Oceano Pacifico) e le fredde distese del Nord-Ovest americano (amatissimo anche da Jack London e James Fenimore Cooper, altri numi tutelari di Pratt).
Per dovere di cronaca e giustizia editoriale è giusto sottolineare che, mentre la storia “Capitan Cormorant” è totalmente frutto dell’estro creativo di Pratt, “Billy James” e “L’assalto al forte” vantano sceneggiature rispettivamente di Mino Milani e Alberto Ongaro, che tuttavia le hanno ritagliate su misura per le matite e i gusti di Pratt, così come un abile sarto cuce un abito sul corpo del suo cliente.
È Capitan Cormorant, anche grazie al maggior numero di tavole, ad aprire le danze e non si può fare a meno di notare come il personaggio sembri quasi un prototipo di Corto Maltese, creatura più nota e riuscita di Pratt e responsabile della sua fama planetaria. Entrambi sono marinai, entrambi poco inclini alla disciplina e maldisposti a sopportare le angherie di potenti, ma pronti a gettarsi nella più pericolosa delle imprese per salvare un amico in difficoltà. Dice di lui, malcelando un pizzico di invidia, un tenente olandese: “il capitano Cormorant… Il migliore che navighi questi mari. È libero come dice il suo nome: un grande uccello dalle ali candide. Onesto e allegro. Rispetta le leggi quando sono giuste, ma se ne ride quando chi le amministra è un uomo come Raffles o il governatore. Davanti a lui la gente deve togliersi il cappello sperando che la degni di uno sguardo.” Così, nell’anno di grazia 1778, nell’isola olandese di Timor, Cormorant si imbatte casualmente nel gentiluomo Randolph Light, giunto in quel luogo esotico alla ricerca di spiegazioni sulla morte del padre e la scomparsa del suo oro. È l’inizio di una rocambolesca avventura tra funzionari corrotti, inseguimenti su velieri, incontri con cacciatori di uomini e sparatorie a colpi di archibugi, che nelle storie di Pratt fanno “crack!” e non “bang!”.
“Billy James” e “Assalto al forte” sono ambientate sempre nella seconda metà del diciottesimo secolo, ma trasportano il lettore in nordamerica, più esattamente ai confini tra Stati Uniti e Canada, nel bel mezzo del conflitto anglo-canadese e delle complesse alleanze con le tribù indiane, in compagnia di solitari trapper impegnati a sopravvivere in un mondo pericoloso. Uomini tutti d’un pezzo, forgiati dalle difficoltà e da un senso dell’onore d’altri tempi, difficile da trovare ai giorni nostri.
Ma se storie e personaggi, pur non privi di una certa linearità e prevedibilità da feuilleton, tengono desta l’attenzione, a incantare gli occhi sono soprattutto gli ambienti. I grandi scenari dell’avventura vengono portati sulla carta dalla matita di un Pratt non ancora all’apice della forma, ma già esperto narratore per immagini in grado di trasmetterne tutto il loro fascino fatto di un inscindibile misto di bellezza e pericolo.
La linea delle onde divide il blu dell’oceano da quello di cieli maestosi solcati da decine di gabbiani, una distesa di acqua e aria e che giunge fino all’orizzonte, come si allungasse all’infinito. E su un piccolo veliero con le vele gonfiate dal vento i personaggi non sono che puntini in balia della natura.
Nei boschi del nordamerica, invece, pare di sentire l’odore del muschio e delle foglie secche, mentre i tronchi degli alberi sono sculture naturali dietro le quali possono nascondersi mille insidie. Luoghi nei quali gli esseri umani sono ancora presenze rare, surclassate da una flora e una fauna che assurgono a veri dominatori della scena.
Oltre che storie di uomini, insomma, quelli di Pratt sono affreschi di mondi, per buona parte perduti, nei quali il paesaggio ambisce al ruolo di personaggio, talvolta solo spettatore di quanto accade, altre volte elemento determinante nello svolgersi degli eventi. Perché senza un oceano da solcare o una foresta da attraversare non vi è vera avventura. 

  
HUGO PRATT
Capitan Cormorant e altre storie
Rizzoli Lizard
pp. 150, euro 26,00


mercoledì 24 gennaio 2018

THE SHADOW PLANET


Gli autori del volume autoconclusivo The Shadow Planet non nascondono le loro intenzioni, anzi le spiattellano nell’aletta di copertina. “The Shadow Planet segna il grande ritorno della fantascienza con ‘pianeta’ del titolo, piena di procaci ragazze in tuta attillata, virili militari in ingombranti scafandri, razzi affusolati e scintillanti, pistole a raggi, mostri tentacolari, tubi e bulloni. Questa volta, però, regna un’atmosfera da horror claustrofobico e paranoico che rimanda ai classici cinematografici del genere.” Già, sono i film di fantascienza anni Cinquanta (e non solo) il filo conduttore di questa graphic novel, film che hanno già ispirato la cinematografia di genere successiva, più ricca di budget e di conseguenza di effetti speciali, come il primo film di Alien, tanto per citare una delle pellicole più famose, il cui incipit è praticamente identico a quello di The Shadow Planet. “Un segnale radio molto debole. Una richiesta d’aiuto. Il codice identificativo appartiene alla E/Rico. Una goletta in missione scientifica.” Spiega l’ufficiale in seconda nel fumetto, rivelando che il messaggio arriva dal misterioso pianeta Gliese 667 e in questo modo obbligando il comandante dell’astronave, l’avvenente Jenna, a inviare una missione di soccorso. Ovviamente è l’inizio di un’avventura che si fa sempre più pericolosa tavola dopo tavola, in un susseguirsi di colpi di scena, con la realtà che si mescola agli incubi e personaggi costretti a diffidare ognuno degli altri, mentre i mostruosi segreti del pianeta creano un’atmosfera di terrore. Come preannunciato, ci sono tutti gli stereotipi legati al sottofilone dell’esplorazione planetaria, messi in sequenza proprio come in un film, con un taglio cinematografico che si affida molto alle immagini e a una scansione narrativa delle stesse. Merito di una sceneggiatura estremamente attenta, ma anche di un disegno molto sofisticato, che rende omaggio alla tecnologia del passato inserendola in un contesto moderno, una sorta di retrofuturo rivisto e corretto. Così gli astronauti indossano tute attillate che sembrano frutto di designer contemporanei ma abbinate a scafandri in stile sottomarino che non si vedono dai tempi di 20.000 leghe sotto i mari. E che dire della splendida landrover spaziale che ricorda una vecchia roadster da corsa a tre ruote? E le pistole spaziali, o ray gun, a metà tra Buck Rogers e lo steam punk? Un lavoro da collage innaffiato con tanta creatività e con un buon uso del colore, che alterna atmosfere cupe a esplosioni cromatiche (si sono mai visti mezzi spaziali blu elettrico?). Un bel lavoro insomma, ma a cui manca qualcosa. La storia, infatti, si crogiola un po’ troppo nella nostalgia di quelle pellicole in bianco e nero che vuole omaggiare. Per quanto tutto fili liscio, e la lettura risulti decisamente gradevole, si fatica a individuare elementi di originalità. Certo, qualche dettaglio spicca, come la relazione lesbica tra comandante e sottoposta (decenni fa certo improponibile in pellicole per il grande pubblico), ma ogni tassello del puzzle ricorda in qualche modo qualcosa già visto altrove. Manca, insomma, quel guizzo narrativo, quell’idea originale in grado di rendere The Shadow Planet unico e particolare, e di aggiungere a un filone ricco e fortunato elementi di novità mai visti prima. Se vi accomoderete in poltrona per leggere The Shadow Planet come una replica dei vecchi film che avete visto durante la vostra infanzia, magari in qualche cinema di periferia dove venivano proiettate due pellicole al prezzo di una, sicuramente vi godrete appieno la lettura. Se, invece, vi avvicinerete a questo graphic novel aspettandovi una storia mai letta, o vista, prima rischiate di rimanere delusi. Dal canto nostro, vi proponiamo la prima opzione, magari tenendo a portata di mano una bella busta di pop corn e una bibita gasata piena di zuccheri, per un viaggio a ritroso nel tempo che, incredibilmente, vi porterà nel futuro, un futuro che è già passato.

Gianluca Pagliarani, Giovanni Barbieri, Alan D’Amico
The Shadow Planet
Saldapress
pp. 96, euro 12,90



domenica 7 gennaio 2018

UNA MOSTRA PER DORAEMON


Si chiude in questi giorni a Tokyo (in particolare nella Mori Tower a Roppongi) la mostra dedicata a Doraemon, nella quale 28 artisti giapponesi forniscono una loro interpretazione del personaggio. Ma prima vediamo chi è Doraemon.
Ha l’aspetto di un gatto, ma un gatto davvero speciale. Azzurro e bianco, testa a palla, marsupio da cui estrae ogni genere di oggetto. Si chiama Doraemon e non è un vero felino, bensì un robot giunto dal futuro. Le sue avventure sono stravaganti quanto il suo aspetto, ma grazie alle sue buone intenzioni l’happy end è garantito.
Doraemon proviene dal XXIII secolo e si stabilisce a casa di Nobi Nobita (gioco di parole per “uno che se la prende comoda”) ragazzino terrestre del XX secolo con cui stringe una salda amicizia. Doraemon ha accesso a un gran numero di marchingegni, che estrae dalla propria tasca dalla capienza illimitata, dato che pesca nella quarta dimensione. Il giovane Nobita è affascinato da tali prodigi del futuro, ma pare poco incline ad ascoltare i consigli e gli ammonimenti di Doraemon, utilizzando spesso a sproposito le incredibili e invenzioni, cacciandosi così nei guai. In effetti il ragazzino, che vive nella periferia di Tokyo assieme ai genitori, è un esempio di mediocrità e, non eccellendo né a scuola né nella vita, cerca di sfruttare i gadget di Doraemon per farsi notare o per guadagnare denaro senza fatica. Si scopre, inoltre, che Doraemon è giunto nel XX secolo proprio per salvarlo da una futura disfatta, una bancarotta che condannerebbe persino i suoi pronipoti a pagarne i debiti.
Il personaggio di Doraemon nasce nel dicembre del 1969, su quattro numeri di una rivista educativa per ragazzini pubblicata dalla casa editrice Shogakukan. L’anno dopo diviene protagonista di un proprio manga, lungamente pubblicato sulla rivista mensile CoroCoro Comic e su volumi monografici che vendono milioni di copie.
I brevi episodi a fumetti di cui il gattone e l’amico umano sono protagonisti sono disegnati con un tratto molto semplice, e consistono essenzialmente in frenetici tentativi di riparare i danni provocati da Nobita e al contempo di nascondere l'origine di Doraemon. Nonostante l'input fantascientifico, la serie è immersa nel quotidiano, in particolare quello scolastico e casalingo, grazie a Nobita e ai personaggi che gli ruotano attorno, genitori e amici. È probabilmente quest’ultimo uno dei motivi dello straordinario successo giapponese del personaggio e, al contempo, della sua scarsa penetrazione in Occidente, ove molti dettagli possono risultare difficilmente comprensibili. Complesso, per esempio, può essere per un lettore italiano o americano comprendere la passione di Doraemon per i dorayaki, pancake farcito con crema di fagioli rossi, di cui ogni bambino giapponese è ghiotto ma il cui sapore risulta sconosciuto al palato di giovani europei e statunitensi. Il personaggio resta saldamente sulla breccia anche dopo la morte del suo autore, avvenuta nel 1996, continuamente ristampato in collane di ogni foliazione e formato la cui popolarità non accenna a diminuire, anche grazie alle innumerevoli trasposizioni animate, televisive e cinematografiche..
Doraemon ha ricevuto anche una delle più importanti onoreficenze che possano essere assegnate a un personaggio dei manga e degli anime, ma anche a un comune essere umano. Nel 2008 il ministro degli esteri giapponese, Komura Masahiko, lo ha infatti nominato ambasciatore degli anime nel corso di una cerimonia ufficiale tenutasi a Tokyo. La lettera di investitura gli è stata consegnata in mezzo ai flash delle macchine fotografiche dei molti giornalisti presenti, accompagnata dalle seguenti parole del ministro: “Spero che la gente di tutto il mondo scopra sempre più aspetti positivi del Giappone attraverso i suoi cartoon, che sono universalmente conosciuti. Confido che come ambasciatore tu possa viaggiare in tutto il mondo e insegnare che cos’è il Giappone”.
Ovviamente, a ricevere fisicamente l’incarico è stato un pupazzo al cui interno ha trovato ospitalità un doppiatore. Già in altre occasioni rappresentanti del governo giapponese si erano favorevolmente espressi a favore dei manga e degli anime, mentre molto spesso personaggi famosi sono stati usati per campagne di pubblicità progresso, ma è la prima volta che uno di loro diviene a tutti gli effetti portavoce della cultura giapponese, di cui è in effetti uno dei maggiori rappresentanti. 
Tornando alla mostra, gli artisti invitati a fornire una personale visione del personaggio hanno dato vita a dipinti, statue, installazioni e strani progetti multimediali. Tra loro il più famoso è sicuramente Takashi Murakami (che ha anche una personale affinità coi manga in genere) che lo ha disegnato all'interno di un gigantesco dipinto molto pop e colorato nel quale sono presenti anche le sue tipiche margheritone, vero e proprio marchio di fabbrica. Alcune installazioni non sono entusiasmanti, come quella nella quale una donna sdraiata nella neve urla "Doraemonnnnnn!!!" in mezzo ai boschi (non chiedetemi spiegazioni). Altre sono affascinanti, come una scultura (non saprei come altro definirla) che sembra un ammasso di fili di ferro intrecciati ma che, una volta colpita dai raggi di luce inviati da un proiettore, vede prendere forma su quei fili le sagome dei personaggi in movimento. Nel complesso, una mostra davvero gradevole da visitare, con aggiunta di ristorante con piatti a tema (come è tipico di questi eventi).