domenica 27 dicembre 2015

FERDINANDO TACCONI

La scheda sotto è scritta da me e tratta dal volume Fumetto!, per il quale, appunto, ho realizzato le biografie di diversi autori. Dato che il libro risulta esaurito (ma se lo trovate, anche usato, compratelo, è un bel librone) ho pensato di proporla qui.


In grado di affrontare col medesimo impegno, e gli stessi ottimi risultati, il fumetto d’autore come quello popolare, probabilmente Ferdinando Tacconi non ha mai fatto distinzione tra i due. La passione per il disegno, infatti, scorre in ogni suo lavoro, ma raggiunge il massimo risultato nelle storie che si fondono con un altro amore, quello per il volo. Per questo motivo molti suoi fumetti sono affollati di aerei, riprodotti con la precisione di un ingegnerie e l’entusiasmo di un ragazzino. Altrettanto abile con il bianco e nero che con il colore, durante gli anni Settanta sembra quasi sviluppare una doppia anima. Il tratto delle sue tavole, infatti, media felicemente tra realismo e necessità di sintesi, mentre nelle immagini a colori, spesso per copertine, punta su uno stile pittorico e tridimensionale. Col tempo è la prima opzione a prevalere, portandolo all’utilizzo di un tratto spesso e pennellate decise, a soluzioni grafiche che lambiscono la stilizzazione, mentre i personaggi divengono facilmente riconoscibili grazie a occhi sottili e i nasi appuntiti. Il tutto, però, senza impoverire vignette e tavole, al contrario puntando su un’eleganza formale grazie alla quale ogni singola linea vanta un preciso scopo e diventa elemento di una perfetta composizione. Da sottolineare anche la sua maestria nel disegnare figure femminili, sviluppata all’interno del filone erotico e mantenuta nelle altre produzioni. Ragazze sensuali ma mai volgari, dalle labbra marcate e dalle capigliature che prendono forma grazie a decine di linee sottili. Insomma, non solo un “cesellatore di aerei”, come è stato definito da Sergio Bonelli, ma anche un attento osservatore, e abili disegnatore, della figura umana.      

Ferdinando Tacconi nasce a Milano il 27 dicembre 1922 e sin da bambino mostra una propensione al disegno. Dopo il secondo conflitto mondiale, si presenta alla casa editrice Mondadori per mostrare alcuni suoi acquerelli e ottiene del lavoro come illustratore, realizzando delicati ritratti femminili per le riviste Grazia e Confidenze.
Debutta nei fumetti alla fine degli anni Quaranta disegnando storie per Morgan il pirata, Miss Diavolo e altre serie popolari, come Sciuscià e Nat del Santa Cruz. Fra il 1958 e il 1969 realizza numerose storie di guerra per l’agenzia inglese Fleetway, dando così sfogo al proprio interesse per gli eventi bellici. Negli anni Sessanta firma anche moltissime illustrazioni e fumetti per il settimanale Look and Learn (sempre della Fleetway), dalle ambizioni didattiche e divulgative.
All’inizio degli anni Settanta torna a lavorare a pieno ritmo per l’Italia. Oltre a realizzare illustrazioni per libri scolastici, comincia a collaborare con la Edifumetto di Renzo Barbieri, specializzata in tascabili erotici.
Dal 1972 disegna varie serie del Corriere dei ragazzi, curando, tra l’altro, la creazione grafica degli Aristocratici (1973), scritta da Alfredo Castelli e incentrata su una banda di ladri gentiluomini.
Dopo aver lavorato in Francia ad alcuni episodi della Histoire de France e della Histoire du Far West per Larousse, realizza due volumi della collana Un uomo un’avventura, edita da Sergio Bonelli: L’uomo del deserto e L’uomo di Rangoon.
Nel 1983 disegna Mac Lo Straniero, scritto da Gino D’Antonio e pubblicato su Orient Express, e, a partire dal 1986, collabora con il Giornalino, realizzando, tra le altre, le serie Uomini senza gloria (poi ristampata in volumi col titolo La seconda Guerra Mondiale), Susanna e Il sogno di Icaro, una splendida opera dedicata alla sua grande passione, il volo.

Negli Novanta collabora a molte testate della Sergio Bonelli Editore, disegnando avventure di Dylan Dog, Nick Raider e Mister No. Nel 2002 si aggiudica il prestigioso premio Yellow Kid e nel 2003, a Cartoomics, il Premio alla Carriera. Si spegne a Milano l’11 maggio del 2006.


lunedì 30 novembre 2015

ADDIO A SHIGERU MIZUKI


È scomparso oggi il mangaka Shigeru Mizuki. Nato a Sakai l’8 marzo 1922, era il secondo di tre figli e il suo vero nome era Shigero Mura. La sua infazia e la sua giovinezza sono segnate da esperienze, anche terribili, che contribuiranno non poco ai temi e alle atmosfere dei suoi manga. Quando è ancora un fanciullo un’anziana vicina, soprannominata NonNonBa, gli racconta decine di storie di yokai, creature fantastiche del folklore nipponico, che gli restano impresse nella memoria. Intanto cresce la sua passione per la pittura, che viene però ostacolata dalla Seconda guerra mondiale. Nel 1942 Mizuki viene arruolato nell’Armata Imperiale, durante il conflitto contrae la malaria e perde il braccio sinistro in un’esplosione (tra l’altro, essendo mancino, deve imparare a usare la mano destra). Inoltre assiste alla morte di alcuni amici e rimane sconvolto dagli orrori della guerra, tanto da pensare di non fare più ritorno a casa.
Al suo rientro in Giappone disegna per il kamishibai, il teatro d’immagini ambulante, e per i negozi di libri in prestito. Nel 1957 pubblica il suo manga d’esordio, dal titolo Rocketman, ma è nel 1959 che realizza il primo episodio di quella che è destinata a diventare la sua serie più famosa. Hakaba no Kitaro (“Kitaro del cimitero”), questo il titolo, viene realizzato a sprazzi e solo a metà anni Sessanta acquisisce una periodicità stretta e il titolo definitivo. La serie racconta le storie horror, ma anche grottesche e divertenti, di Kitaro, un ragazzino che in una cavità oculare ospita lo spettro del padre defunto che lo aiuta nelle sue imprese. Kitaro in ogni episodio deve affrontare macabri misteri e temibili mostri, inventati o prelevati dal folklore nipponico, quegli yokai di cui in gioventù gli parlava nonna NonNonBa. Questi esseri, noti anche come ayakashi o mononoke, possiedono poteri e abilità misteriosi. Yokai viene spesso tradotto come "mostro" o "fantasma", tuttavia queste creature hanno una natura differente dai mostri o dai fantasmi poiché possiedono alcune caratteristiche amabili per le quali è difficili odiarli, infatti riescono ad accattivarsi la simpatia della gente. Quando nel 1965 Kitaro diviene per la prima volta protagonista di un anime (altri ne seguiranno), col titolo Ge ge ge no Kitaro, la popolarità del personaggio cresce esponenzialmente e si protae fino ai giorni nostri.
Ancora interessato alla pittura e alla tradizione, negli ultimi anni Mizuki si dedica alla realizzazione di stampa ukiyo-e (“immagini del mondo fluttuante”, xilografie tipiche giapponesi) usando le medesime tecniche degli artisti del passato. Non solo, riproduce molte stampe del famoso Hiroshige (1797-1858), della serie Cinquantatrè tappe della Tokaido, lasciando immutati i paesaggi ma inserendovi molti yokai e il suo personaggio più famoso, Kitaro, che si trova perfettamente a suo agio in questo gioco tra passato e presente.
Continua a lavorare anche in vecchiaia, e la strada che porta al suo studio è disseminata di statue che rappresentano gli yokai, quelle creature che lo hanno sempre affascinato e a cui ha dedicato anche un’enciclopedia, da lui scritta e disegnata, dal titolo Nihonyokaitaizen (in Italia Enciclopedia dei mostri giapponesi).


venerdì 13 novembre 2015

CONQUISTEREMO IL MONDO!


Nei cartoni animati della Warner Bros, divertenti animali mettono spesso a dura prova le leggi della scienza. Personaggi come il gatto Felix o il coyote Wile E. Coyote cadono da altezze vertiginose, vengono colpiti da incudini, ingoiano esplosivi, subiscono deformazioni coporee per poi tornare al loro stato precedente, magari con l’aggiunta di qualche cerotto. Tutte esasperazioni che mirano a strappare un sorriso. Ma nella sua vasta produzione di cartoons, la Warner ha dato vita anche a un animale scienziato i cui episodi si aprono sempre con la seguente conversazione. 
“Ehi Prof.! Che cosa facciamo stasera?” “Quello che facciamo tutte le sere, Mignolo: tentare di conquistare il mondo! ”
A pronunciare tali frasi sono, rispettivamente, Mignolo e il Prof. (in originale Pinky and the Brain), due topi da laboratorio protagonisti di una serie animata del 1995. Mentre Mignolo è tanto stupido quanto alto, il Prof. è decisamente un genio, nonché uno dei più recenti rappresentanti della curiosa categoria detta dello scienziato pazzo, o mad doctor secondo la definizione anglofona. Tali individui dall’intelligenza estremamente sviluppata si presentano con grande frequenza nelle opere di genere fantascientifico. Lo scienziato pazzo non è necessariamente malvagio, potendosi trattare anche di un semplice eccentrico troppo preso dai propri esperimenti per rendersi conto di ciò che accade intorno a lui, e troppo intelligente per essere compreso dai comuni mortali. Sta di fatto che il Prof ne incarna perfettamente la figura, seppur in chiave umoristica. Peccato che i suoi ingegnosi piani siano sempre e comunque destinati al fallimento.

giovedì 29 ottobre 2015

STURMTRUPPEN!

Tornano in edicola le Sturmtruppen n una collezione che promette di raccogliere tutte le strisce realizzate da Bonvi. Colgo l'occasione per ripresentare un mio pezzo.


Narra la leggenda che il primo disegno delle Sturmtruppen sia stato realizzato alle 3 del mattino del 2 ottobre 1968, sulla tovaglia di un’osteria modenese, ma trattandosi di una creazione di Bonvi è probabile che la leggenda corrisponda a verità. Sta di fatto che il mese successivo le Sturmtruppen vincono un concorso indetto dal quotidiano Paese Sera, che le pubblica a partire dal 23 novembre. La serie nasce in un formato molto popolare negli Stati Uniti, quello della striscia umoristica, ma praticamente ignorato dagli autori italiani cui Bonvi fa da apripista. In pratica si tratta di una sequenza composta da un minimo di una a un massimo di cinque vignette montate in orizzontale per sfociare in una gag finale. Dalle strip a stelle e strisce Bonvi non riprende solo il formato, ma anche l’uso dei retini per arricchire il bianco e nero e taluni meccanismi narrativi, come la reiterazione delle gag, il finale a sorpresa, i tormentoni, ecc. Impasta però il tutto con la propria passione per le armi associata, in una sorta di strano ossimoro, con una personalità anarchica e pacifista. Poi lo annaffia con un umorismo ruspante, di matrice emiliana, fatto anche di fisicità e battute grevi. L’esplosivo cocktail è destinato a diventare uno dei fumetti più longevi, duraturi e ristampati del nostro Paese. Ben 5865 strisce pubblicate su quotidiani, riviste, volumi monografici, rimontate e adattate sotto varie forme, talvolta colorate, anche se il bianco nero resta la loro veste migliore.

LE STURMTRUPPEN FANNO GULP!
Il titolo della serie, Sturmtruppen, deriva da sturm (assalto) e truppen (truppe) e infatti è incentrata su fantaccini tedeschi costantemente impegnati in una guerra comica e tragica allo stesso tempo, a cui si aggiunge l’ottusità prepotente di ufficiali e sottufficiali. Se non fosse per le loro divise potrebbe trattarsi di un qualsiasi esercito del mondo, dato che i problemi della truppa travalicano steccati e stendardi. Ma la connotazione germanica permette a Bonvi di ideare un linguaggio maccheronico - fatto di k al posto delle c, parole che terminano in n e di ja e nein sparsi qua e là – che contribuisce a connotare la serie e a renderla divertente. Senza contare che il fallimento della proverbiale efficienza germanica strappa più sorrisi al lettore. Raramente le Sturmtruppen hanno un nome proprio e quando lo hanno è abbastanza comune (o quantomeno è il nome che l’italiano medio attribuisce al tedesco medio): Otto, Franz, Fritz, ecc. Si tratta di fantaccinen qualunque, che non vedono l’ora di lasciare la vita militare, ove sono costretti a dire “signorsì” a qualsiasi superiore, per tornare alla vita civile e al loro lavoro, ove finalmente potranno dire “sissignore” a qualsiasi dirigente. Insomma, un destino segnato. Ma se nella loro vita fittizia le Sturmtruppen incassano un colpo basso dopo l’altro, nel mondo reale riscuotono grandi consensi e, dopo essere state immortalate al cinema con attori in carne e ossa, nel 1981 approdano anche in televisione, nella trasmissione Buonasera con… Supergulp! (seguito delle precedenti Gulp! e Supergulp!). Brevi sketch in semianimazione che adattano quanto visto nelle strisce e nei quali il tedesco maccheronico e il disfattismo costante continuano a funzionare a meraviglia. 

IN TRINCEA COL FANGO
Nonostante mezzi e divise siano della Seconda guerra Mondiale, i fanti delle Sturmtruppen sono quasi sempre bloccati entro fangose trincee che ricordano il primo conflitto mondiale. Il tratto spesso e i retini pesanti accentuano ulteriormente lo squallore del mondo dei fantaccinen, che si dimostra un’ottima scelta sia dal punto di vista narrativo, consentendo di concentrarsi sulla vita quotidiana delle Sturmtruppen, sia dal punto di vista grafico, risultando immediatamente riconoscibile ed efficace. Tra l’altro, lo spazio ristretto della striscia non consente l’utilizzo di sfondi elaborati, inoltre divise e armi dei soldati sono già ricchi di particolari, che farebbero “a pugni” con ulteriori appesantimenti grafici. Il fango in cui le sturmtruppen sono costantemente immerse, metafora della loro condizione umana, è alimentato da una pioggia torrenziale che spesso e volentieri cade su di loro capi privi di un qualsivoglia riparo. I bisfrattati soldatini farebbero volentieri a meno di tutta quell’acqua, ma quando vengono accontentati cascano dalla padella nella brace. Il solo modo per evitare acqua e fango, infatti, è finire in mezzo al deserto, tormentati da sabbia e sete e costretti a rimpiangere la precedente condizione. In altre parole, non importa su quale fronte vengano inviate, perché le Sturmtruppen sono destinate soffrire, per la gioia dei loro un poco sadici lettori.

GUIDA AL FUMETTO ITALIANO

Ho cominciato a collaborare col sito "Guida al fumetto italiano" (http://www.guidafumettoitaliano.com). Il mio primo pezzo è dedicato a Goldrake (http://www.guidafumettoitaliano.com/…/il-goldrake-sconosciu…). Gli interessati possono farci un salto.

mercoledì 28 ottobre 2015

NON TOCCATE QUEI COLORI!

Una puntata della mia rubrichetta sulla rivista Fumo di China.


Recentemente, in uno dei periodici e assolutamente inutili tentativi di mettere in ordine la mia libreria, mi sono ricapitate per le mani le storie brevi “I racconti di Asgard” (in originale “Tales of Asgard”) della Marvel che qualche anno fa (2009) Panini Comics ha pubblicato in appendice alla testata di Thor, ma anche sui volumi della collana Super Eroi distribuiti col quotidiano La Gazzetta dello Sport. Ho una particolare predilezione per quelle storie, che esulano dal contesto supereroico Marvel per sfociare in una fantasy epica, anche un po’ naif se volete, e mitologica ispirata alle leggende nordiche (se non l’avete mai fatto, vi invito a leggere L’Edda di Snorri nei cui confronti sono fortemente debitrici). A un lettore di fumetti Marvel da circa quarant’anni, un aspetto appare subito evidente: sono state ricolorate, per l’esattezza da Matt Milla. Quest’ultimo ha fatto anche un discreto lavoro, ma per un albo moderno, non per uno “vintage”.  
Realizzate negli anni Sessanta dalla formidabile coppia Stan Lee e Jack Kirby, i racconti di Asgard narrano le leggende degli dei nordici, mescolando poesia e avventura. Nei sixties, però, il modo di colorare i fumetti era molto diverso, più “forte”, più eccentrico, più pop (e sottolineo pop, nel senso migliore del termine e filo warholiano). Uno stile certamente più in linea col disegno di Kirby, che faceva anche dell'eccesso uno dei suoi punti di forza. 
Quindi sono andato a cercarmi le tavole con la colorazione originale e ai miei occhi è riapparso quel tripudio di verdi, gialli accecanti, rosso vivaci, viola e blu che rendevano magari un po’ kitsch, ma sicuramente affascinanti e grandiosi gli dei e i cavalieri di Asgard, oltre che il loro mondo. Un’esplosione cromatica completamente cancellata dalle scelte di Milla, che ha invece puntato su una vasta gamma di marroni e tinte cupe che hanno spento le luci di quel Luna Park cromatico che erano all’inizio quelle stesse storie. 
Questa operazione di (ri)colorazione, mi ricorda quella dei film in bianco e nero. Pellicole figlie del loro tempo e dalle suggestive atmosfere trasformate in prodotti senz’anima per un pubblico più giovane che comunque non le apprezza. 
Insomma, aridatece Kirby coi suoi colori! Dopotutto, in quel marasma di pubblicazioni sfornate mensilmente da Marvel (e di conseguenza da Panini in Italia), si potrà trovare spazio per un recupero non solo doveroso ma anche di  gradevolissima lettura, nonché migliore di molte idee stupide e bizzarre che da tempo hanno preso piede nella (ex?) Casa delle Idee.

martedì 20 ottobre 2015

L'ULTIMA STORIA DI KEN


Sul numero attualmente in distribuzione della rivista Qui Libri, un mio pezzo dedicato all'ultima storia di Ken Parker.

lunedì 5 ottobre 2015

GATTI RITRATTI


IL RE DEL POP


Hisashi Eguchi è una artista decisamente eclettico, in grado di spaziare dagli anime ai manga, dalla grafica all'illustrazione fino alla pubblicità. In varie vesti (character designer, direttore delle animazioni, ecc.) ha partecipato a importanti lungometraggi animati come Spriggan (1998), Roujin Z (1991), Perfect Blue (1997).
Molto attivo nel campo dell'illustrazione, firma parecchie copertine di riviste, specializzandosi in immagini di giovani ragazze giapponesi su sfondi cittadini. Facendo tesoro delle proprie esperienze di illustratore e animatore realizza diversi volumi in cui propone la figura umana in numerosissime pose e situazioni, in modo da divenire una sorta di manuale per disegnatori. Tra i suoi manga va ricordato il demenziale Nantokanarudesho!, collezione di storie brevi e autonome supervisionate da Eguchi ma non sempre realizzate da lui. 
In genere predilige un tratto spesso e pulito, nonché forme morbide e tondeggianti. Talvolta, per realizzare un'illustrazione, parte da una fotografia che rielabora, semplificandola, attraverso il proprio disegno. Tali immagini a colori, dalle linee spesse e dalle tinte piatte, non possono fare a meno di ricordare maestri della pop art come Warhol e Lichtenstein.
Molti i libri illustrati dedicatigli, l'ultimo dei quali si intitola K.O.P. (King of Pop) e raccoglie circa 500 immagini che spaziano lungo tutta la sua carriera, sottolineandone le multiformi doti, anche se chi scrive resta convinto che illustrazione e colore sono suoi punti di forza, mentre le produzioni manga passano in secondo piano. In Italia il libro è acquistabile presso fioridiciliegioadriana@gmail.com.





giovedì 13 agosto 2015

RICORDANDO F. FUSCO

Si è spento il 9 agosto Fernando Fusco, abile disegnatore di Tex (e non solo). Lo ricordo con questa biografia.


Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, Sergio Bonelli continua a cercare valide matite da inserire nello staff di disegnatori di Tex. L’editore ha un duplice obiettivo: fornire un prezioso aiuto a Galep, che certo non può sostenere una produzione di cento tavole al mese, e arricchire la testata principe della casa editrice con autori nel solco della tradizione classica ma allo stesso tempo dalla forte personalità artistica. Tra questi vi è Fernando Fusco.
Racconta proprio Bonelli: “Il lato più gratificante del mio lavoro, appassionato come sono di disegno, consiste proprio nel cercare nuovi disegnatori per una casa editrice in piena crescita; proprio per questo leggo instancabilmente la produzione degli editori italiani e non solo, anche dei francesi, degli inglesi e degli spagnoli. È il motivo per cui non mi sfugge il segno affascinante e personale di un artista che, dopo aver lavorato a lungo in Francia, è arrivato sule pagine dell’Intrepido. Le serie che illustra per la rivista, Lone Wolf e i I due dell’Apocalisse, scritte da Luigi Grecchi, sono due piccoli gioielli e non c’è quindi da meravigliarsi se io faccio di tutto per assicurarmi la collaborazione del loro disegnatore. Confesso che il suo arruolamento nelle fila bonelliane è tutt’altro che facile, ma quando si realizza ho il privilegio di lavorare oltre che con un prezioso collaboratore anche con un grandissimo amico, proprio come piace a me.”

Anche Fusco riporta di una certa titubanza iniziale a cominciare la collaborazione. “Conobbi Sergio Bonelli quasi subito dopo il mio ritorno dalla Francia. Conosceva il mio lavoro e mi fece delle proposte interessanti per disegnare Mister No, ma io temevo molto la lunghezza delle storie che uscivano nelle sue serie, ognuna delle quali richiede un anno o più di lavoro. Così inizialmente rifiutai, ma poi avvenne un fatto che mi convinse a cambiare idea. Un amico francese mi informò che la Universo aveva cominciato a pubblicare là Lone Wolf, senza nemmeno avvisarmi. Telefonai in casa editrice chiedendo spiegazioni e loro accamparono scuse insostenibili. Così l’atmosfera non era più serena e questo mi spinse ad accettare la proposta di Bonelli. Che mi diede subito una sceneggiatura di Tex. Non me ne sono mai pentito, perché loro erano più interessati alla qualità dei disegni e, pur tenendo alla produzione, non chiedevano un impegno così assillante come alla Universo. Poi c’era un rapporto più frequente, più amichevole.”

Così nel 1974 il disegnatore firma la sua prima storia di Tex, “L’idolo di metallo” su testi di Gianluigi Bonelli, e da allora si dedica solo al ranger. Ma in precedenza la sua vita artistica è stata molto varia. Nato l’1 agosto 1929 a Ventimiglia, si trasferisce ad Algeri quando è ancora un bambino. Torna in Italia allo scoppio della Seconda guerra mondiale. In seguito frequenta l’accademia di Bordighera e nel 1948 debutta nel mondo del fumetto con alcuni episodi della serie avventurosa Jeff Cooper. Nel 1949 si trasferisce a Parigi, ove resta fino al 1970 con la parentesi romana che va dal 1952 al 1955, quando deve svolgere il servizio militare e in seguito collabora saltuariamente con Il Vittorioso e realizza ilustrazioni per album di figurine.

In territorio francese, invece, crea Scott Darnal per le Éditions Mondiales di Cino del Duca, Cendrine e Esperanza (Éditions Montsouris) e illustra molte storie destinate ai quotidiani, per conto della Mondial Press. Si occupa anche dell’adattamento a fumetti di alcune serie televisive per Sagéditions, tra cui Bonanza, Tarzan, Penna di Falco, Il cavallo di ferro. Disegna anche gli umoristici Tim e Tom e la piacevole saga western Willy West su testi di Luigi Grecchi. Per il mercato inglese collabora con l’agenzia Temple Art, disegnando fumetti e illustrazioni per pubblicazioni femminili.
Tornato in Italia nel 1970, disegna per l’Intrepido delle edizioni Universo le serie scritte da Grecchi Lone Wolf e I Due dell’Apocalisse. L’incontro con Bonelli cambia la sua vita professionale, portandolo a dedicarsi esclusivamente a Tex, che caratterizza in modo molto personale, rendendolo decisamente più muscoloso e possente di quello dei suoi colleghi disegnatori.
Smette di disegnare fumetti nel 2010, per dedicarsi alla pittura.

giovedì 18 giugno 2015

BATTLE ANGEL ALITA

Nel 1990 Kishiro Yukito, al tempo ancora una giovane promessa del fumetto giapponese, mette in cantiere un manga in grado di contenere la sua passione per la fantascienza e per i robot, ma anche ricordi ed emozioni accumulati durante l’infanzia, quando il padre lo portava in giro per discariche a recuperare vecchi pezzi di automobili con cui costruire dune buggy. Quelle sue esperienze a contatto con tecnologia considerata obsoleta e da rottamare, al contrario in grado di prendere nuova vita se affidata a mani capaci, lo porta a immaginare un protagonista cyborg, abbandonato in una discarica e ritrovato da uno strano scienziato intenzionato di farlo funzionare nuovamente. È questo l’incipit di Alita, l’angelo della battaglia, pubblicato in Giappone dal 1991 col titolo Gunnm. Grande successo in patria, il manga fa conoscere l’artista anche all’estero. Non solo, gli permette di affinare le sue doti di disegnatore e di far vivere il proprio personaggio in altri media. 


I MANGA 
Salem è una città volante che, alta nel cielo, appare come un paradiso irraggiungibile agli abitanti della sottostante “città discarica”. È proprio tra i rifiuti che l'inventore Ido Daisuke trova la testa, ancora funzionante, di un cyborg dalle fattezze femminili. A quel capo privo di memoria Daisuke monta un nuovo corpo meccanico e battezza la neonata creatura Alita. Ben presto la giovinetta scopre che la vita nella città discarica non è affatto facile, e che il suo “patrigno” Daisuke è un cacciatore di taglie pronto battersi con cyborg ricercati. Decide così di diventare una bounty hunter a sua volta, immergendosi in una spirale di violenza. Partecipa anche al Motor Ball, violentissimo sport che porta i cyborg a farsi letteralmente a pezzi. Il manga termina nel 1995, col nono volume, ma Kishiro non è soddisfatto e nel 2001 dà vita a un sequel, Gunnm: Last Order, in 19 volumi. La nuova serie “cancella” il finale della vecchia e riparte con Alita dotata di un nuovo, potentissimo corpo progettato con l’ausilio di avanzate nanotecnologie: l’Imaginos Body. Nella sua nuova forma fisica, Alità dovrà affrontare nuove avventure e nuove avversari, tra cui il guerriero Sechs e il terribile Satumode, sorta di mostro nanotecnologico assai potente. Inoltre Kishiro realizza Gunnm: Gaiden (“Storie collaterali di Alita”), racconti che svelano dettagli sul passato della protagonista, disegnati con un tratto più morbido, plastico e pulito rispetto alla serie principale.


L’ANIME 
Nel 1993, il manga di Alita viene parzialmente trasformato in anime grazie a due spettacolari OAV di trenta minuti ciascuno. La miniserie può contare sulla sceneggiatura di Kondo Akinori, il character design di Yuki Noboteru e la regia di Fukumiya Hiroshi. L'ambientazione e le atmosfere sono quelle già apprezzate nel manga. Anche i protagonisti sono i medesimi, Alita, ragazzina cyborg, e Ido Daisuke, inventore eccentrico. Il filo narrativo del manga viene però svolto con un ritmo più serrato, con l'inserimento di sottotrame e nuovi personaggi, tra cui la ex compagna di Ido, che arricchiscono l’anime. Il disegno rispetta il tratto originario di Kishiro, dalle linee morbide nel disegnare i protagonisti e dalla perversa fantasia nel realizzare i sanguinari cyborg ricercati, ma ne esalta il dinamismo concretizzando scene d'azione velocissime e dalla regia impeccabile. Nei combattimenti che vedono coinvolta Gunnm le inquadrature si succedono a ritmo frenetico, con primi piani su mani in movimento, sugli occhi dei contendenti, sui passi veloci di Alita, sulle immagine riflesse nelle lenti degli occhiali di un cyborg, per poi riallargare su Gunnm che volteggia acrobaticamente verso il proprio avversario per colpirlo. Ma se le scene d'azione sanno essere velocissime, i momenti di calma sono altrettanto incisivi e può bastare una semplice lenta zoommata sul volto della protagonista per chiarire allo spettatore quali siano i suoi sentimenti. D'effetto anche l'uso del colore che in più di una scena riesce a valorizzare le atmosfere, lo stato emotivo dei personaggi. 


TUTTI I VOLTI DI ALITA 
Il successo di Alita si trasferisce su ogni media, così diviene protagonista di un romanzo pubblicato da Shueisha e di un videogame per PlayStation, dal titolo Gunnm: Martian Memory, con una complessa trama che si distacca da quanto visto nel manga. Ma la vera sorpresa consiste in un cortometraggio in computer graphic di circa tre minuti, privo di parole ma dall’assordante colonna sonora, nel quale una partita di Motor Ball diviene un’esplosione di spettacolarità, affascinante e agghiacciante al medesimo tempo. Questo cortomettraggio, ospitato su un DVD, è stato allegato a un volume dell’edizione speciale giapponese del manga. Mentre nella sua terra d’origine la serie continua a essere serializzata sulla rivista Ultra Jump della Shueisha, le edizioni estere si moltiplicano, rendendo Alita nota al grande pubblico internazionale che la apprezza come quello giapponese..Per concludere, da tempo si vocifera della prossima realizzazione di un film live action, con ampio uso di computer grafica, girato dal regista statunitense James Cameron. Quest’ultimo, affascinato dal personaggio, sarebbe interessato in particolare alla prima parte del manga, nonché a sviluppare frenetiche gare di Motorball, a suo avviso uno degli elementi più avvincenti della saga. A quanto pare, Alita non può proprio fare a meno di continuare a rinascere.


ASHEN VICTOR & IL MOTOR BALL
La saga di Alita ha dato vita a uno spin off dal titolo Ashen Victor, un manga in un unico volume scritto e disegnato da Kishiro Yukito. Nel manga in questione Alita è assente, è invece presente una scenografia ben nota ai suoi fan, quella del Motor Ball. Il protagonista, Snev, è infatti un mediocre giocatore di quel violento sport. Nella sua carriera Snev non è mai riuscito a portare a termine un solo incontro, ma improvvisamente qualcosa cambia quando comincia a ricordare i dettagli del suo primo incidente di gioco, ricordi che potrebbero finalmente renderlo un campione. Per illustrare questa breve storia ricca di drammatici scontri, Kishiro opta per un tratto differente dal solito, basato sul contrasto tra bianchi e neri, fortemente ispirato al fumetto americano Sin City di Frank Miller. 


GUNNM O AELITA? 
Nella originale versione giapponese, Alita si intitola Gunnm. Tale nome è la contrazione di Gun's Dream, (“il sogno di una pistola”), poiché nel progetto iniziale di Kishiro Yukito la protagonista avrebbe dovuto essere un agente dotato di armi da fuoco. La trama è cambiata, ma il titolo è rimasto. I traduttori dell’edizione americana, della Viz Comics, hanno però trovato il nome, e quindi il titolo, troppo ostico per il pubblico occidentale, decidendo così di cambiarlo nel più armonioso Alita. Quest’ultimo, però, non è stato creato dal nulla, ma ottenuto modificando leggermente Aelita, titolo di un fantascientifico romanzo scritto nel 1922 dal russo Aleksej Nikolaevic Tolstoj, trasformato nel 1924 dal regista Jakov Protazanov in un film muto considerato il primo colossal fantascientifico sovietico. Nella versione letteraria, uno scienziato sovietico, l’ingegnere Los’, e un rude ex soldato, Gusev, raggiungono Marte su una rudimentale astronave. Lì si imbattono in una avanzata società e in Aelita, di cui Los’ si invaghisce. La bella marziana viene così descritta: “una giovane donna dai capelli color cenere (…) Il suo volto allungato, biancoazzurro (…) Il naso un po’ all’insù, la bocca leggermente allungata erano teneri, come in un bambino.”


LE NOVITÀ
Questo 2015 ha portato qualche novità agli appassionati del personaggio. Kishiro ha dato vita a un nuovo manga (di cui in questo momento in Giappone è uscito un solo volume),  Gunnm Mars Chronicle, che fa da prequel alla serie classica. È così possibile osservare cosa accade alla protagonista quando è ancora una bambina e magri verranno svelati i dubbi e segreti ancora in sospeso. Inoltre, è stato dato i alle stampe un illustration book dal titolo Ars Magna, contenente tutte le illustrazioni, e le tavole a colori, create da Kishiro per le varie serie. Una esplosione di immagini degne dell'artista e del suo personaggio più famoso.
È proprio da Ars Magna e da Gunnm Mars Chronicle che sono tratte le immagini che illustrano questo post. Entrambi i volumi possono essere acquistati anche in Italia scrivendo a fioridiciliegioadriana@gmail.com.


domenica 3 maggio 2015

CLASSIC STAR WARS


Visto che oggi è lo Star Wars Day (in Italia, negli Usa è domani), ecco la segnalazione di alcuni volumi a fumetti (purtroppo quasi inediti in Italia) un po' datati ma ancora splendidi.
CLASSIC STAR WARS ristampa, colorate e reimpaginate nel classico formato comicbook, le strisce realizzate negli anni ottanta da una celebre coppia di autori americani: Archie Goodwin (testi) e Al Williamson (disegni). Alcune di queste strisce si sono viste in passato anche in Italia, sulla vecchia EUREKA. Il lavoro effettuato dalla DARK HORSE (al tempo detentrice della licenza Star Wars per i fumetti) è ottimo. Questa bella edizione classic vanta una veste grafica accurata, una buona colorazione ed una reimpaginazione lodevole, non è semplice infatti trasformare le strisce in tavole (senza allinearle semplicemente) e larga parte del buon risultato è dovuta allo stesso Williamson, che è intervenuto realizzando nuove vignette. 


Ed è proprio ad Al Williamson che vanno le lodi maggiori. Autore di grandissima esperienza, Williamson è artefice di un disegno classico, preciso nelle anatomie e ricco di particolari, con neri ben usati ed un utilizzo dei retini parco ma efficace, un tratto a volte un po' troppo spesso (anche perché molte vignette sono ingrandite) ma mai sgradevole. Inoltre Williamson pare trovarsi a proprio agio con le ambientazioni space-fantasy (ricordiamo che è stato anche uno dei disegnatori di FLASH GORDON) realizzando con la medesima cura astronavi, robot, alieni, guerrieri fantasy, giungle incontaminate, ricomponendo il tutto in pregevoli vignette. Una summa dell'ottimo lavoro di questo disegnatore è rappresentata dalle copertine appositamente realizzate per questa edizione, splendide illustrazioni ricche di fascino, mistero, azione. Un'ultima considerazione sulle storie, del bravo Goodwin, che si collocano tra i primi due film (trilogia classica), svelando le molteplici avventure occorse ai ribelli nell'intervallo di tempo che va dalla distruzione della Morte Nera fino alle vicende de L'IMPERO COLPISCE ANCORA.


     

domenica 26 aprile 2015

365 SAMURAI

Medium estremamente malleabile, nonostante oltre cento anni di storia il fumetto si dimostra ancora in grado di accogliere innovazioni e sostenere esperimenti. In questa graphic novel appositamente realizzata per il mercato Usa, l’artista svizzero (ma nel sua sangue scorrono varie etnie, come nella sua mente alloggiano molte culture) Kalonji rifugge la classica impostazione della tavola e opta per piccole pagine (il formato è quello di un tascabile) di una sola vignetta ognuna. Sorta di mini splash page lungo le quali il flusso narrativo scorre veloce come in un cartone animato (non a caso i balloons sono rarissimi), anche grazie a un tratto pulito ed essenziale, un bianco e nero netto ed elegante, Il protagonista della storia è un ronin che si muove lungo il Giappone feudale, attraversando territori e stagioni, con l’obiettivo di uccidere 365 samurai. Il suo traguardo è ambizioso, anche perché ne cela un altro ancor più difficile da concretizzare. Per sapere se riuscirà nell’intento bisognerà leggere la storia, senza lasciarsi intimorire dal fatto che è disponibile solo in inglese, dopotutto è quasi un lungo film muto, affidato più ai gesti e agli sguardi che non alle parole.





sabato 25 aprile 2015

IL FUMETTO È ARTE?

Il fumetto è arte? Di fronte a tale domanda gli appassionati risponderanno «certamente!», i detrattori «neanche per idea!» Il quesito, come molti altri, presenta al suo interno una miriade di sfumature, dopotutto come si può definire qualcosa arte se non è ben chiaro neanche che cosa sia l’arte? Diceva Vincent Van Gogh: «A tutt’oggi, non ho trovato miglior definizione dell’arte di questa, l’arte è l’uomo aggiunto alla natura – natura, realtà, verità. Ma col significato, il concetto, il carattere che l’artista sa trarne, che libera e interpreta.» Un concetto ben applicabile anche al fumetto. Ancora più ampia e omnicomprensiva è la definizione di arte coniata da Dino Formaggio: «Arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte.» Ma a prescindere dal fatto che si consideri il fumetto arte oppure no, è innegabile l’interscambio esistente tra i due (ammesso che siano cose separate). Tanto per fare due esempi, il fumettista statunitense Jim Steranko cita visivamente le opere di Dalì in alcuni suoi fumetti. Sul fronte opposto, Roy Lichtenstein “copia” vignette di fumetti per trasformarle in quadri pop. E che dire poi di quegli autori che si spostano agevolmente da un settore all’altro, disegnando fumetti un giorno e dipingendo quadri un altro, come Carl Barks (uno dei top player disneyani) o Pablo Eucharren, pittore che non disdegna i comics pur non lesinando pareri taglienti nei confronti del settore: «per il mondo della pittura sono un fumettaro, per quello del fumetto sono un pittore. E il mondo del fumetto è completamente cieco.»
In Francia, la prestigiosa università di Parigi, la Sorbonne, ospita un corso di storia ed Estetica del Fumetto. Infatti i francesi lo definiscono la Nona Arte. Non tutti, ovviamente, sono d’accordo e il noto critico d’arte Vittorio Sgarbi, pur dimostrando un certo apprezzamento per il medium, ha a lungo argomentato sul fatto che non si tratti di arte. 
Comunque sia, così come l’arte ha talvolta “giocato” col fumetto, questo a sua volta ha “giocato” con l’arte. È il caso de La traversata del Louvre, romanzo grafico nel quale l’autore, David Prudhomme, non fa altro che raccontare la visita del suo alter ego di carta al più famoso museo del mondo, il Louvre. Non c’è una trama precisa, solo un girovagare tra le sale, le opere d’arte, persone, pensieri, sensazioni, emozioni, idee. Eppure, tutto scorre fluido, in un crogiolo di realtà e immaginazione che cominciano a confondersi tra loro. È evidente che Prudhomme pensa che il fumetto sia arte, altrimenti non pronuncerebbe, nella sua forma disegnata, tali frasi: «mi sembra di trovarmi in un gigantesco fumetto. Su tutte le pareti ci sono delle vignette. Di tutte le dimensioni e di tutte le forme. Lettori ovunque. Venuti da tutto il mondo. Meglio di Tintin.» Così il Louvre diventa fumetto a sua volta, e coprotagonista persino. Gli altri personaggi, tutti silenti, sono i suoi visitatori, impegnati a osservare quadri e statue. Ma se guardi a lungo un’opera d’arte questa comincia a guardare te (divertenti le vignette in cui il punto di vista si ribalta) e, in certo senso, a diventare te, influendo sulle tue espressioni, le tue posture, il tuo modo di muoverti. Almeno per un po’, non ti lascia neanche quando esci dal museo, quando le immagini delle tele rimangono negli occhi e si mescolano col quotidiano. Perché se è vero che siamo ciò che mangiamo, è altrettanto vero che siamo ciò che leggiamo, ciò che guardiamo, ciò che amiamo. Girovagare per il Louvre – anche senza meta, quasi perdendosi – è insomma una gioia, un’esperienza catartica. Il piccolo Prudhomme, e il lettore con lui, si immerge in quelle sale maestose e il grande Prudhomme reinventa con la sua mano da fumettista opere famose, così tante e così belle che volendo si può fare un gioco: contare quante se ne riconoscono. In grandi vignette, spesso a tutta pagina, riempite con colori pastello, con delicate sfumature di grigio si è quasi colpiti dalla sindrome di Stendhal, visitando il museo comodamente seduti a casa propria. È questo, indubbiamente, uno dei grandi vantaggi del fumetto (e della narrativa in genere), consentire di conoscere luoghi e persone, vivere avventure ed emozioni, senza fare un passo. E nel fermare sulla carta tanta arte e tanta bellezza, Prudhomme lo fa con una leggerezza e una accuratezza encomiabili, puntando su un tratto che media tra realismo e sintesi, tra serio e ironico. E se il fumetto non è arte, La traversata del Louvre non so proprio cosa sia…
 

venerdì 17 aprile 2015

LA SF DI JEFF HAWKE


La fantascienza è uno di quei generi che il media fumetto ha esplorato, e ancora esplora, in lungo e in largo anche sotto forma di svariati sottogeneri. L’approccio alla stessa varia anche a seconda del background culturale dei suoi autori. Sarà anche per questo che, storicamente, le grandi serie di origine statunitense si sono spesso dimostrate più avventurose e fantastiche rispetto a quelle inglesi, dal taglio maggiormente realistico e tecnologico. Esemplare in questo senso uno dei personaggi più noti del fumetto british, quel Dan Dare che nel 1950, grazie a Frank Hampson, colpisce i lettori della terra di Albione con i suoi colori sgargianti. Dan Dare, dai gradi di colonnello, è un pilota coraggioso e dallo spiccato senso del dovere, al servizio della flotta interplanetaria. In tale veste visita Venere e altri pianeti, si batte contro alieni malvagi, tra cui il terribile Mekon dalla grossa testa, costantemente intento a progettare macchinosi piani per conquistare la Terra. Nonostante la componente fortemente avventurosa, la serie poggia su solide basi scientifiche, cercando di codificare una tecnologia che sia una logica evoluzione di quella esistente all’epoca, tanto da anticipare gli Shuttle poi effettivamente usati dalla Nasa. 


Lo spazio e le creature aliene sono i punti di forza anche di un altro serial inglese (quello di cui ci occupiamo ora), questa volta in bianco nero perché nato per le strisce dei quotidiani (e non per la pagine di una rivista come Dan Dare). Si tratta di Jeff Hawke, creato nel 1954 dallo scozzese Sydney Jordan. Il personaggio, inizialmente un pilota della RAF (l'aviazione inglese), viene rapito dagli extraterrestri, diviene ufficiale della Royal Space Force e comincia a viaggiare per il mondo e per lo spazio, avendo a che fare con nuovi alieni, ma anche con misteri archeologici e altro ancora. Rigoroso scientificamente come il suo predecessore, Jeff Hawke è forse meno spettacolare graficamente e un po' più “lento” nella narrazione, ma destinato a divenire egualmente famoso. E altrettanto attento nel suggerire l’evoluzione tecnologica e nell’anticipare i traguardi dei viaggi spaziali. A tal punto che, nel 1959, una striscia della serie ipotizza che lo sbarco sulla Luna degli esseri umani avrà luogo il 4 agosto del 1969. Nella realtà avviene il 20 luglio dello stesso anno. Jordan ha “sbagliato” solo di una quindicina di giorni! Per lungo tempo, gli alieni affollano le vignette della serie incarnando un curioso contrasto, tanto sono stravaganti nell’aspetto più sono “umani” (nel bene e nel male) negli atteggiamenti. È solo con loro che il tratto realistico di Jordan si permette soluzioni che sfiorano l’umorismo. Straordinario ed efficacissimo l’uso dei retini, che donano sfumature a vignette altrimenti troppo monocordi e, diciamolo, un po’ ingessate a causa della continua ricerca di realismo. Anche le cose belle finiscono, così Jordan chiude Jeff Hawke nel 1974 per dedicarsi al nuovo Lance McLane, un medico imbarcato su un’astronave del 2074. Un giorno, però, succede qualcosa di inaspettato: dagli Stati Uniti arriva la richiesta di dare seguito alle avventure di Jeff Hawke. Dato che non ha tempo di realizzare due strisce contemporaneamente, Sidney Jordan mette in atto un ardito escamotage: fa finire Jeff in buco nero e lo fa rinascere al tempo e nel corpo di McLane. Un imbroglio bello e buono, ma poi non così sbagliato. Dopotutto, la filosofia che sta alla base di entrambe le serie è la medesima: una fantascienza seria e verosimile, un personaggio che tende alla riflessione più che all’azione. Se prima Jeff e Lance erano, editorialmente parlando, padre e figlio ora sono gemelli, anzi sono la medesima persona. È su questa seconda parte dell’esistenza di Hawke che si concentra il volume di cui parliamo, pubblicando anche alcune storie finora inedite in Italia. I confini spaziali entro cui si muove ora il personaggio sono più ristretti, la Terra è stata colpita da una nuova glaciazione e gli esseri umani sopravvivono nello spazio, su astronavi o basi lunari, in attesa di poter far rifiorire il pianeta azzurro. Gli alieni sono molto meno presenti, in sintonia con la scelta di puntare su un realismo ancora maggiore. Purtroppo, nella maggior parte delle strisce i retini spariscono, per lasciare spazio a una quadricromia (non presente nel volume in questione, tutto in bianco e nero) che richiede un alleggerimento del segno. Subentrano nuovi personaggi, come l’androide Fortuna che, col suo corpo artificiale e un cervello umano, è un po’ l’emblema della doppia anima della serie che fonde la freddezza della tecnologia col calore delle passioni umane. Leggendo, o rileggendo, oggi le storie di Hawke si può percepire un certo senso di lentezza nel dipanarsi delle trame e qualche ridondanza nell’uso delle didascalie, specie se le si confronta con altri fumetti dalla narrazione più moderna e dal formato più spazioso. Ma, a prescindere dai gusti personali, non si può fare a meno di apprezzarne l’accuratezza e l’imponente affresco complessivo, così come l’importante impianto etico che le sorregge e pone l’umanità al centro dell’attenzione. Per Hawke come per Jordan gli esseri umani hanno pregi che non devono andare perduti di fronte ai disastri ecologici, né nelle fredde vastità dello spazio, neppure nell’incontro con potentissime e indecifrabili entità aliene. Un messaggio di resistenza e di speranza davvero impegnativo, specie in tempi duri come quelli che stiamo vivendo. 


mercoledì 8 aprile 2015

IN VOLO CON ARZAK


Per essere un fumetto muto, Arzach ha fatto molto parlare di sé sin dalla sua prima apparizione, nel 1975, sul rivoluzionario magazine francofono Metal Hurlant, scuotendo il mondo del fumetto alle fondamenta. Una manciata di brevissimi episodi, in cui anche il titolo cambia continuamente e impercettibilmente in Harzac, Harzack, Arzach, Harzak, Arzak, Harzakc, Arzaque, come se la grafia non fosse importante quanto piuttosto il suono, oppure nel tentativo di privare il lettore di ogni punto di riferimento. Silenzioso e maestoso, Arzach vola su una sorta di buffo pterodattilo, o pterodelfo, sorvolando un mondo in bilico tra fantasy e fantascienza, tra passato e futuro, un medioevo prossimo venturo in cui si imbatte in maestosi paesaggi rocciosi, in ossa di dinosauro cotte dal sole, in gigantesche creature scimmiesche, in eserciti sterminati. Talvolta si batte, altre volte ama misteriose donne, ma perlopiù segue l'invisibile filo dei propri pensieri, perennemente in movimento in storie fatte di suggestioni o, per dirla con parole del suo autore Moebius, “brulicanti di elementi onirici”. Il suo silenzio è più assordante del clangore di mille battaglie e solo in seguito, in una storia di cinque tavole del 1987, mostrerà di saper anche parlare per svelare chi è e qual è la sua missione: “Io sono Arzach, l'ultimo degli pietro-guerrieri! L'origine della mia missione risale al grande ciclo antico, quando, dopo aver perduto il talismano sacro del mio clan, fui condannato alla sua ricerca con l'astuto Zoch e il feroce Noch come unici compagni. Dal giorno in cui li acquistai dai potenti Charadine, maestri creatori di vita e di morte, i due uccelli hanno una devozione senza pari verso di me.” Poche frasi che sollevano più dubbi di quanti ne sciolgano, quindi in perfetta sintonia con un personaggio e un fumetto che fanno del sogno, della libertà, del continuo rincorrersi di immagini ed emozioni i loro principali punti di forza. Il disegno è in perfetta sintonia: maestoso e dettagliato, ma anche pulito ed essenziale, anela alla medesima libertà del suo soggetto, rifuggendo rigide gabbie e imposizioni di ogni tipo, optando per il colore o il bianco e nero, per il dettaglio e la visione d'insieme, per il tratteggio o la sintesi estrema, figlio di una fantasia che non può essere incatenata neanche graficamente. 


E non può essere incatenato nemmeno Arzak (questo il nome definitivo), che negli anni duemila è pronto a tornare alla ribalta. “Arzak voleva vivere”, spiega proprio Moebius, “ e non tardò a farmelo sapere.” Così l’autore imbastisce una nuova storia, “L’ispettore”, questa volta lunga, e fa parlare il suo personaggio. Arzak è ancora un guerriero solitario, ma anche un ispettore di una fantomatica organizzazione per cui è alla ricerca di una misteriosa anomalia. Sul pianeta Tassili, il mondo dei mille deserti, “cavalcando il suo infaticabile pterodelfo, egli viaggia senza tregua. Nulla sfugge al suo sguardo attento, le lucertole delle rocce, le distese di erba assassina.” E mentre meglio si delinea la sua figura, si apprende qualcosa di più anche sulla sua cavalcatura: miscuglio di circuiti antigravitazionali integrati e di funzioni biologiche autogeneranti, collegato telepaticamente al cervello del proprio cavaliere. La trama si irrobustisce e la strada di Arzak incrocia quella di una rivolta aliena tesa a riprendere possesso del pianeta Tassali, ma anche le esistenze di creature provenienti dai vari angoli dell’universo. Fantascienza mescolata a fantasy e a un pizzico di misticismo, ricetta tipica di un Moebius ormai al vertice della propria carriera e maggiormente equilibrato da un punto di vista grafico, grazie a un tratto maestoso che sa essere pulito e dettagliato al medesimo tempo, mentre con linee morbide delinea con apparente semplicità uomini e alieni, tute spaziali e abiti sensuali, interi mondi dalle pittoresche flora e fauna. In quelle tavole ricche di vignette e di un dono visionario in grado di fondere spunti, generi ed elementi in un cocktail perfettamente riuscito, anche i colori rivestono un ruolo importante, grazie a pagine nelle quali le scelte cromatiche puntano sulle infinite sfumature di una medesima tinta per rendere delle suggestioni. Così le pianure diventano oceani di verde, le notti sono popolate da blu intensi, gli interni di futuristiche e lussuose dimore di rossi caldi. Il potere evocativo delle immagini prende il sopravvento, avviluppa il lettore, che si ritrova immerso nel mondo di Arzak, ne respira le atmosfere, ne percepisce il calore, si smarrisce nella sua vastità. La lettura ha quasi un sapore onirico e ogni nuovo dettaglio è una piccola sorpresa. Chiuse le pagine di questo nuovo volume (edito in Francia nel 2010 e in Italia a fine 2012), comprendiamo che non conosceremo mai il finale della storia. Moebius è scomparso nel 2012 e, chissà, forse ora cavalca nei cieli della fantasia sul proprio pterodelfo. Arzak è rimasto orfano e ai lettori spetta il compito di immaginarsi gli sviluppi futuri e la conclusione della sua avventura. Ammesso che ne esista una…