venerdì 17 luglio 2020

FEMMINE INCANTATE


Nella seconda parte della sua vita artistica l’Oriente continua a influenzare Magnus, a fornirgli spunti grafici e narrativi. Le sette storie brevi, autoconclusive e indipendenti, del ciclo Le Femmine Incantate non sfugge a questo destino, anche se, come vedremo, è lo stesso Magnus a “tradire” il presupposto asiatico. Ma cominciamo dal principio…
La serie nasce nel 1987 per essere pubblicata in Francia, sulla rivista L’Echo des Savanes prima e in volume da Albin Michel dopo, mentre in Italia viene proposta sulle riviste La Dolce Vita e Comic Art e solo nel 1990 in volume da Granata Press. Nella sua continua ricerca di formati e soluzioni per rilanciare il fumetto, all’epoca Magnus ritiene che bisognerebbe cercare di uscire dalle solite cose, fare edizioni diverse. Per Le Femmine sogna un formato simile a quello del quotidiano La Repubblica e se la prima pubblicazione, parziale, sulla sfortunata rivista “gigante” La Dolce Vita in parte gli dà ragione, quella successiva su Comic Art mortifica il lavoro grafico certosino, non del tutto valorizzato neanche dalla pubblicazione in volume, seppur di discrete dimensioni. L’artista sa di scontrarsi con preventivi già stabiliti e formati consolidatisi da tempo, per non parlare dello scoraggiamento degli operatori del settore in crisi sul piano commerciale. In ogni caso, la serie viene pubblicata più volte e, seppur meno nota di altri suoi lavori, rappresenta un tassello importante nella carriera di Magnus autore completo.

DALL’ORIENTE CON MODERAZIONE
Riguardo la genesi dell’opera, è lo stesso Magnus a raccontare in un un’intervista, “ho preso lo spunto da una serie di novelle, I Racconti Fantastici di Liao, completamente diverso da Le Femmine Incantate. Ci sono storie molto belle di fantasmi e apparizioni, storie buffe, storie di monaci… Ho enucleato alcune figure femminili e le ho rielaborate, restando però fedele allo spirito complessivo. Spesso si tratta di due o più racconti combinati. In più c’è tutta una mia storia personale. C’è dentro anche una mia esperienza. Ne ‘La Guardiana del Ponte’ non c’è niente che non sia accaduto realmente.”
I racconti fantastici di Liao (noto anche come I Racconti Fantastici dello Studio di Liao) di P'u Sung-ling sono la più famosa raccolta cinese di racconti in lingua parlata. Pubblicati solo nel 1766, sono quasi un’enciclopedia della novellistica cinese. Più di quattrocento storie di argomento immaginario e soprannaturale che hanno quali protagonisti figure del folklore locale come fantasmi, spiriti-volpe, ninfe, bonzi buddisti, immortali, animali e piante magiche che interagiscono e stringono relazioni con gli esseri umani. Magnus, come ha lui stesso dichiarato, fa il proprio lavoro di scrittore, preleva spunti, riscrive episodi, assembla racconti diversi, ma non è questo il “tradimento”, del tutto legittimo si intende, di cui parlavamo, bensì la scelta di disporre il tutto su un piano grafico, geografico e temporale che nulla ha a che fare con l’antica Cina. Se i primi due episodi, “La Grande Signora” e “Il muro dipinto” mantengono elementi grafici orientali, con edifici, costumi e accessori che effettivamente si rifanno all’Oriente, dal successivo “I fiori operosi” compaiono elementi che rimandano al presente (se non addirittura al futuro) come moderni treni e aeroplani. Oppure cavalieri e palazzi che ricordano il Medioevo europeo, persino eserciti di Lanzichenecchi. Sul fronte paesaggistico, ma anche per quel che riguarda abitazioni, abiti e cibi, storia dopo storia Magnus sembra attingere sempre più a ciò che lo circonda, alle colline Emiliane, a tal punto che nell’ultima vignetta dell’ultima storia sullo sfondo potrebbero esserci le fortificazioni della vallata di Castel del Rio, paesino nel quale Magnus trascorre i suoi ultimi anni. L’artista, insomma, non ha semplicemente trascritto graficamente quelle storie, ma le ha assimilate, digerite e rielaborate in una nuova forma, del tutto personale.

UN LAVORO CERTOSINO
Non è l’unico “tradimento” perpetrato da Magnus. Chiariamo, continuiamo a utilizzare la parola tradimento non in senso negativo, ma come “lampeggiante” per segnalare una personale rielaborazione, una volontà di rottura e cambiamento rispetto a canoni consolidati, anche dello stesso Magnus. Il grande formato permette, a volte costringe, l’autore a impostare le tavole in modo differente. Così come l’origine letteraria delle storie, e le poche tavole a disposizione per ognuna di esse, lo portano a utilizzare un linguaggio più alto e didascalico rispetto al solito. In tavole tanto grandi, che in originale somiglieranno più a lenzuoli che a fogli di carta, Magnus delinea vignette che, seppur squadrate, spesso non hanno forma regolare ma tendono a entrare leggermente una dentro l’altra, si sviluppano in orizzontale o in verticale. Poco propense a ospitare i bianchi sono affollate di persone, edifici, oggetti. Le modeste case di campagna, come i sontuosi palazzi vengono dettagliati fino allo sfinimento, mentre la vegetazione è a dir poco lussureggiante, in particolare gli alberi sono un maestoso intrecciarsi di rami che incanta e stupisce. Quella stessa vegetazione, gioia per gli occhi del lettore, deve essere sembrata una sorta di incubo per Magnus, costretto a ore sul tavolo da disegno per raggiungere tali risultati.Troppo, troppo, troppo di tutto. Troppe vignette, troppi segni, troppe parole. Il risultato finale per quanto spettacolare “tradisce” (e ci risiamo) lo spirito del fumetto. Quest’ultimo, che deve essere narrazione scorrevole, movimento, flusso di immagini e parole, tende a rallentarsi davanti a tale straboccante ricchezza di tratti da osservare. Una deviazione dalla via smorzata, fortunatamente e opportunamente, dalla “forza” dei personaggi, che fanno da collante e da fulcro al tutto. Personaggi femminili che, talvolta fantastici talvolta fortemente reali, sono al centro della narrazione.

IL RACCONTO PIÙ BELLO
L’episodio più bello, col personaggio femminile più interessante e la storia più realistica ben poco ha a che fare con i racconti di Liao, e rinuncia al fantastico e all’erotismo per raccontare semplicemente la vita di una donna. In “La guardiana del ponte” la giovane Koo, figlia di un mugnaio, affronta una vita lunga e difficile, ma non priva di soddisfazioni, facendo da contraltare a uomini incapaci e violenti, propensi più a distruggere che a creare o conservare. Koo è la rappresentazione del meglio dell’essenza femminile, artefice di vita, custode del focolare, simbolo di quel femmineo eterno che può salvare l’uomo e quindi il mondo intero. Tutto ciò senza magia, ma semplicemente con la forza di volontà e il duro lavoro quotidiano, la coscienza pulita e le braccia stanche. Uno dei più poderosi omaggi al femminile della narrativa a fumetti.
Inoltre, “La guardiana del ponte” elimina anche tutte quelle sfumature favolistica che pervadono le storie precedenti del ciclo, riportando il tutto su un piano molto pragmatico. Già la prima tavola, composta da quattro larghissime vignette orizzontali delinea in modo concreto e preciso il luogo in cui si svolge la vicenda: la campagna, il fiume, le chiuse, luoghi precisi, con le loro regole, i loro ritmi. La vita della protagonista, all’inizio assai difficile, si srotola in modo lineare, senza grandi colpi di scena, senza “principi azzurri”, senza soluzioni folcloristiche, seguendo i cicli delle stagioni e piegandosi alle necessità dell’esistenza. È proprio questo suo realismo, questa sua concretezza a renderla interessante e a farci rimpiangere il fatto che Magnus non abbia mai pensato di dedicarle un intero romanzo grafico, piuttosto che un solo racconto breve. Ne sarebbe certo scaturita un’opera di grande umanità e intensità emotiva, degna della migliore narrativa, non solo fumettistica.


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