giovedì 26 dicembre 2019

IL RITORNO DI DIAVOLIK


Sì, avete letto bene: è proprio Diavolik e non Diabolik. E, sebbene l’immagine per i manifesti disegnata da Renato Casaro faccia pensare a un lungometraggio confezionato in fretta e furia per ricalcare il successo del film Diabolik diretto da Mario Bava e uscito pochi mesi prima, non si tratta di una parodia del Re del Terrore. Il teschio e il costume scheletrico del protagonista ricordano parecchio Killing o a Kriminal, così come il mitra impugnato e la ragazza ai suoi piedi in abbigliamento sconvolto, lo classifica immediatamente come parente in celluloide del fumetto nero. In un periodo di proliferazione di eroi bondiani e di folcloristici protagonisti di spaghetti western, non ci stupiamo che il Re del Terrore avesse degli imitatori anche al cinema, come già avveniva in edicola. Inconsapevoli di essere di fronte a una vera e propria truffa, i cultori del genere – attratti dai vari Kriminal, Satanik, Sadik e Mister X trasposti in celluloide – si affrettarono ad acquistare il biglietto ed entrare in sala. D’altronde il titolo Il ritorno di Diavolik, magari letto in fretta, poteva dare a intendere che si trattasse di un sequel del film di Bava. O almeno i distributori italiani, cambiando semplicemente una “b” con una “v”, così volevano che fosse. Ma una volta che i titoli di testa scorrono sul grande schermo e iniziano a prendere forma le prime immagini ci si rende subito conto che ci troviamo di fronte a ben altro. Soprattutto a nulla di italiano, né di europeo, ma di assistere a una delle tante produzioni giapponesi in stile Godzilla & Company, dove tutti gli interpreti hanno, ovviamente, gli occhi a mandorla. E dell’anglofono Thomas Lee sparato sul manifesto, nessuna traccia. E poi quel tizio, il protagonista, raffigurato sul manifesto in un’azione tanto dinamica e in un tripudio di colori, qui si alza a fatica dalla bara, come è giusto che sia per una specie di mummia. E, caspiterina, sorpresa delle sorprese, il film è anche in bianco e nero!
Dopo un primo, comprensibile attimo di smarrimento, lo spettatore curioso, vuol vedere cosa succede e, dato che ha pagato il biglietto, in cosa ha investito i suoi soldi. La trama si rifà alla tradizione dei film di mostri: la Terra – e Tokyo – sono minacciati da un asteroide che la distruggerà. Un gruppo di coraggiosi, guidati dal comandante Yamatone, tenta di fermare il crudele progetto architettato dal folle Nazo. Nell’impari lotta li aiuterà Diavolik, richiamato in vita dalla dolce Emily. “Dopo diecimila anni l’Umanità si troverà in pericolo. Sollevate quindi il coperchio di questo feretro: allora io, Diavolik, mi risveglierò dal mio lungo sonno e mi batterò per voi”. Quindi scopriamo che Diavolik non è un cattivo, ma un buono, che brandisce un bastone e non un mitra. Che il film nulla ha a che vedere con il fumetto nero, se non per il titolo e per il manifesto. 
In realtà Diavolik è Ogon Bat (o Ogon Batto, secondo la storpiata lettura nipponica) – “Pipistrello dorato” – personaggio degli anni Trenta, che la Toei, una delle più importanti case giapponesi di produzioni cinematografiche, nel 1950 ha deciso di rispolverare in un lungometraggio, a cui ne segue un altro nel 1966 affidato alla regia di Hajime Sato (che nella versione italiana diventa Terence Marvin jr!), quello di cui si parla in queste pagine, e di un terzo datato 1972.
Ma chi è Ogon Batto? Il personaggio nasce nel 1931 come eroe del kamishibai, una forma di intrattenimento da strada, una sorta di teatrino ambulante basato su una serie di disegni di grande formato accompagnati dalla voce del narratore, che ne recita le vicende mentre il giovane pubblico sgranocchia dei dolcetti (fonte di sostentamento dell’ambulante, che vende i candy tradizionali). La prima storia di Ogon Batto è scritta da Ichiro Suzuki e disegnata dall’appena diciassettenne Takeo Nagamatsu. Il protagonista proviene dall’Atlantide di diecimila anni fa e, nonostante l’aspetto terrificante dato dalla maschera da teschio (color oro) e dal nero mantello, fa parte dei buoni: combatte alieni cattivi, dinosauri mostruosi, robot giganti. Come spesso accade coi kamishibai, altri autori ne disegnano le imprese e, tra questi, spicca Koji Kata, che dopo il secondo conflitto mondiale ne diventa l’autore principale, occupandosi anche dei testi. Nel 1948 cominciano a circolare anche dei volumi monografici, mentre nel 1967 tocca a una serie in animazione che porta anche al primo manga, scritto dal solito Kata e illustrato da Daiji Kazumine. 
I cartoni da noi arriveranno nel 1981 e il personaggio verrà nuovamente ribattezzato, questa volta come Fantaman (probabilmente dall’edizione Usa Phantaman), mentre per il manga dovremo aspettare il 2006.

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