domenica 26 aprile 2015

365 SAMURAI

Medium estremamente malleabile, nonostante oltre cento anni di storia il fumetto si dimostra ancora in grado di accogliere innovazioni e sostenere esperimenti. In questa graphic novel appositamente realizzata per il mercato Usa, l’artista svizzero (ma nel sua sangue scorrono varie etnie, come nella sua mente alloggiano molte culture) Kalonji rifugge la classica impostazione della tavola e opta per piccole pagine (il formato è quello di un tascabile) di una sola vignetta ognuna. Sorta di mini splash page lungo le quali il flusso narrativo scorre veloce come in un cartone animato (non a caso i balloons sono rarissimi), anche grazie a un tratto pulito ed essenziale, un bianco e nero netto ed elegante, Il protagonista della storia è un ronin che si muove lungo il Giappone feudale, attraversando territori e stagioni, con l’obiettivo di uccidere 365 samurai. Il suo traguardo è ambizioso, anche perché ne cela un altro ancor più difficile da concretizzare. Per sapere se riuscirà nell’intento bisognerà leggere la storia, senza lasciarsi intimorire dal fatto che è disponibile solo in inglese, dopotutto è quasi un lungo film muto, affidato più ai gesti e agli sguardi che non alle parole.





sabato 25 aprile 2015

IL FUMETTO È ARTE?

Il fumetto è arte? Di fronte a tale domanda gli appassionati risponderanno «certamente!», i detrattori «neanche per idea!» Il quesito, come molti altri, presenta al suo interno una miriade di sfumature, dopotutto come si può definire qualcosa arte se non è ben chiaro neanche che cosa sia l’arte? Diceva Vincent Van Gogh: «A tutt’oggi, non ho trovato miglior definizione dell’arte di questa, l’arte è l’uomo aggiunto alla natura – natura, realtà, verità. Ma col significato, il concetto, il carattere che l’artista sa trarne, che libera e interpreta.» Un concetto ben applicabile anche al fumetto. Ancora più ampia e omnicomprensiva è la definizione di arte coniata da Dino Formaggio: «Arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte.» Ma a prescindere dal fatto che si consideri il fumetto arte oppure no, è innegabile l’interscambio esistente tra i due (ammesso che siano cose separate). Tanto per fare due esempi, il fumettista statunitense Jim Steranko cita visivamente le opere di Dalì in alcuni suoi fumetti. Sul fronte opposto, Roy Lichtenstein “copia” vignette di fumetti per trasformarle in quadri pop. E che dire poi di quegli autori che si spostano agevolmente da un settore all’altro, disegnando fumetti un giorno e dipingendo quadri un altro, come Carl Barks (uno dei top player disneyani) o Pablo Eucharren, pittore che non disdegna i comics pur non lesinando pareri taglienti nei confronti del settore: «per il mondo della pittura sono un fumettaro, per quello del fumetto sono un pittore. E il mondo del fumetto è completamente cieco.»
In Francia, la prestigiosa università di Parigi, la Sorbonne, ospita un corso di storia ed Estetica del Fumetto. Infatti i francesi lo definiscono la Nona Arte. Non tutti, ovviamente, sono d’accordo e il noto critico d’arte Vittorio Sgarbi, pur dimostrando un certo apprezzamento per il medium, ha a lungo argomentato sul fatto che non si tratti di arte. 
Comunque sia, così come l’arte ha talvolta “giocato” col fumetto, questo a sua volta ha “giocato” con l’arte. È il caso de La traversata del Louvre, romanzo grafico nel quale l’autore, David Prudhomme, non fa altro che raccontare la visita del suo alter ego di carta al più famoso museo del mondo, il Louvre. Non c’è una trama precisa, solo un girovagare tra le sale, le opere d’arte, persone, pensieri, sensazioni, emozioni, idee. Eppure, tutto scorre fluido, in un crogiolo di realtà e immaginazione che cominciano a confondersi tra loro. È evidente che Prudhomme pensa che il fumetto sia arte, altrimenti non pronuncerebbe, nella sua forma disegnata, tali frasi: «mi sembra di trovarmi in un gigantesco fumetto. Su tutte le pareti ci sono delle vignette. Di tutte le dimensioni e di tutte le forme. Lettori ovunque. Venuti da tutto il mondo. Meglio di Tintin.» Così il Louvre diventa fumetto a sua volta, e coprotagonista persino. Gli altri personaggi, tutti silenti, sono i suoi visitatori, impegnati a osservare quadri e statue. Ma se guardi a lungo un’opera d’arte questa comincia a guardare te (divertenti le vignette in cui il punto di vista si ribalta) e, in certo senso, a diventare te, influendo sulle tue espressioni, le tue posture, il tuo modo di muoverti. Almeno per un po’, non ti lascia neanche quando esci dal museo, quando le immagini delle tele rimangono negli occhi e si mescolano col quotidiano. Perché se è vero che siamo ciò che mangiamo, è altrettanto vero che siamo ciò che leggiamo, ciò che guardiamo, ciò che amiamo. Girovagare per il Louvre – anche senza meta, quasi perdendosi – è insomma una gioia, un’esperienza catartica. Il piccolo Prudhomme, e il lettore con lui, si immerge in quelle sale maestose e il grande Prudhomme reinventa con la sua mano da fumettista opere famose, così tante e così belle che volendo si può fare un gioco: contare quante se ne riconoscono. In grandi vignette, spesso a tutta pagina, riempite con colori pastello, con delicate sfumature di grigio si è quasi colpiti dalla sindrome di Stendhal, visitando il museo comodamente seduti a casa propria. È questo, indubbiamente, uno dei grandi vantaggi del fumetto (e della narrativa in genere), consentire di conoscere luoghi e persone, vivere avventure ed emozioni, senza fare un passo. E nel fermare sulla carta tanta arte e tanta bellezza, Prudhomme lo fa con una leggerezza e una accuratezza encomiabili, puntando su un tratto che media tra realismo e sintesi, tra serio e ironico. E se il fumetto non è arte, La traversata del Louvre non so proprio cosa sia…
 

venerdì 17 aprile 2015

LA SF DI JEFF HAWKE


La fantascienza è uno di quei generi che il media fumetto ha esplorato, e ancora esplora, in lungo e in largo anche sotto forma di svariati sottogeneri. L’approccio alla stessa varia anche a seconda del background culturale dei suoi autori. Sarà anche per questo che, storicamente, le grandi serie di origine statunitense si sono spesso dimostrate più avventurose e fantastiche rispetto a quelle inglesi, dal taglio maggiormente realistico e tecnologico. Esemplare in questo senso uno dei personaggi più noti del fumetto british, quel Dan Dare che nel 1950, grazie a Frank Hampson, colpisce i lettori della terra di Albione con i suoi colori sgargianti. Dan Dare, dai gradi di colonnello, è un pilota coraggioso e dallo spiccato senso del dovere, al servizio della flotta interplanetaria. In tale veste visita Venere e altri pianeti, si batte contro alieni malvagi, tra cui il terribile Mekon dalla grossa testa, costantemente intento a progettare macchinosi piani per conquistare la Terra. Nonostante la componente fortemente avventurosa, la serie poggia su solide basi scientifiche, cercando di codificare una tecnologia che sia una logica evoluzione di quella esistente all’epoca, tanto da anticipare gli Shuttle poi effettivamente usati dalla Nasa. 


Lo spazio e le creature aliene sono i punti di forza anche di un altro serial inglese (quello di cui ci occupiamo ora), questa volta in bianco nero perché nato per le strisce dei quotidiani (e non per la pagine di una rivista come Dan Dare). Si tratta di Jeff Hawke, creato nel 1954 dallo scozzese Sydney Jordan. Il personaggio, inizialmente un pilota della RAF (l'aviazione inglese), viene rapito dagli extraterrestri, diviene ufficiale della Royal Space Force e comincia a viaggiare per il mondo e per lo spazio, avendo a che fare con nuovi alieni, ma anche con misteri archeologici e altro ancora. Rigoroso scientificamente come il suo predecessore, Jeff Hawke è forse meno spettacolare graficamente e un po' più “lento” nella narrazione, ma destinato a divenire egualmente famoso. E altrettanto attento nel suggerire l’evoluzione tecnologica e nell’anticipare i traguardi dei viaggi spaziali. A tal punto che, nel 1959, una striscia della serie ipotizza che lo sbarco sulla Luna degli esseri umani avrà luogo il 4 agosto del 1969. Nella realtà avviene il 20 luglio dello stesso anno. Jordan ha “sbagliato” solo di una quindicina di giorni! Per lungo tempo, gli alieni affollano le vignette della serie incarnando un curioso contrasto, tanto sono stravaganti nell’aspetto più sono “umani” (nel bene e nel male) negli atteggiamenti. È solo con loro che il tratto realistico di Jordan si permette soluzioni che sfiorano l’umorismo. Straordinario ed efficacissimo l’uso dei retini, che donano sfumature a vignette altrimenti troppo monocordi e, diciamolo, un po’ ingessate a causa della continua ricerca di realismo. Anche le cose belle finiscono, così Jordan chiude Jeff Hawke nel 1974 per dedicarsi al nuovo Lance McLane, un medico imbarcato su un’astronave del 2074. Un giorno, però, succede qualcosa di inaspettato: dagli Stati Uniti arriva la richiesta di dare seguito alle avventure di Jeff Hawke. Dato che non ha tempo di realizzare due strisce contemporaneamente, Sidney Jordan mette in atto un ardito escamotage: fa finire Jeff in buco nero e lo fa rinascere al tempo e nel corpo di McLane. Un imbroglio bello e buono, ma poi non così sbagliato. Dopotutto, la filosofia che sta alla base di entrambe le serie è la medesima: una fantascienza seria e verosimile, un personaggio che tende alla riflessione più che all’azione. Se prima Jeff e Lance erano, editorialmente parlando, padre e figlio ora sono gemelli, anzi sono la medesima persona. È su questa seconda parte dell’esistenza di Hawke che si concentra il volume di cui parliamo, pubblicando anche alcune storie finora inedite in Italia. I confini spaziali entro cui si muove ora il personaggio sono più ristretti, la Terra è stata colpita da una nuova glaciazione e gli esseri umani sopravvivono nello spazio, su astronavi o basi lunari, in attesa di poter far rifiorire il pianeta azzurro. Gli alieni sono molto meno presenti, in sintonia con la scelta di puntare su un realismo ancora maggiore. Purtroppo, nella maggior parte delle strisce i retini spariscono, per lasciare spazio a una quadricromia (non presente nel volume in questione, tutto in bianco e nero) che richiede un alleggerimento del segno. Subentrano nuovi personaggi, come l’androide Fortuna che, col suo corpo artificiale e un cervello umano, è un po’ l’emblema della doppia anima della serie che fonde la freddezza della tecnologia col calore delle passioni umane. Leggendo, o rileggendo, oggi le storie di Hawke si può percepire un certo senso di lentezza nel dipanarsi delle trame e qualche ridondanza nell’uso delle didascalie, specie se le si confronta con altri fumetti dalla narrazione più moderna e dal formato più spazioso. Ma, a prescindere dai gusti personali, non si può fare a meno di apprezzarne l’accuratezza e l’imponente affresco complessivo, così come l’importante impianto etico che le sorregge e pone l’umanità al centro dell’attenzione. Per Hawke come per Jordan gli esseri umani hanno pregi che non devono andare perduti di fronte ai disastri ecologici, né nelle fredde vastità dello spazio, neppure nell’incontro con potentissime e indecifrabili entità aliene. Un messaggio di resistenza e di speranza davvero impegnativo, specie in tempi duri come quelli che stiamo vivendo. 


mercoledì 8 aprile 2015

IN VOLO CON ARZAK


Per essere un fumetto muto, Arzach ha fatto molto parlare di sé sin dalla sua prima apparizione, nel 1975, sul rivoluzionario magazine francofono Metal Hurlant, scuotendo il mondo del fumetto alle fondamenta. Una manciata di brevissimi episodi, in cui anche il titolo cambia continuamente e impercettibilmente in Harzac, Harzack, Arzach, Harzak, Arzak, Harzakc, Arzaque, come se la grafia non fosse importante quanto piuttosto il suono, oppure nel tentativo di privare il lettore di ogni punto di riferimento. Silenzioso e maestoso, Arzach vola su una sorta di buffo pterodattilo, o pterodelfo, sorvolando un mondo in bilico tra fantasy e fantascienza, tra passato e futuro, un medioevo prossimo venturo in cui si imbatte in maestosi paesaggi rocciosi, in ossa di dinosauro cotte dal sole, in gigantesche creature scimmiesche, in eserciti sterminati. Talvolta si batte, altre volte ama misteriose donne, ma perlopiù segue l'invisibile filo dei propri pensieri, perennemente in movimento in storie fatte di suggestioni o, per dirla con parole del suo autore Moebius, “brulicanti di elementi onirici”. Il suo silenzio è più assordante del clangore di mille battaglie e solo in seguito, in una storia di cinque tavole del 1987, mostrerà di saper anche parlare per svelare chi è e qual è la sua missione: “Io sono Arzach, l'ultimo degli pietro-guerrieri! L'origine della mia missione risale al grande ciclo antico, quando, dopo aver perduto il talismano sacro del mio clan, fui condannato alla sua ricerca con l'astuto Zoch e il feroce Noch come unici compagni. Dal giorno in cui li acquistai dai potenti Charadine, maestri creatori di vita e di morte, i due uccelli hanno una devozione senza pari verso di me.” Poche frasi che sollevano più dubbi di quanti ne sciolgano, quindi in perfetta sintonia con un personaggio e un fumetto che fanno del sogno, della libertà, del continuo rincorrersi di immagini ed emozioni i loro principali punti di forza. Il disegno è in perfetta sintonia: maestoso e dettagliato, ma anche pulito ed essenziale, anela alla medesima libertà del suo soggetto, rifuggendo rigide gabbie e imposizioni di ogni tipo, optando per il colore o il bianco e nero, per il dettaglio e la visione d'insieme, per il tratteggio o la sintesi estrema, figlio di una fantasia che non può essere incatenata neanche graficamente. 


E non può essere incatenato nemmeno Arzak (questo il nome definitivo), che negli anni duemila è pronto a tornare alla ribalta. “Arzak voleva vivere”, spiega proprio Moebius, “ e non tardò a farmelo sapere.” Così l’autore imbastisce una nuova storia, “L’ispettore”, questa volta lunga, e fa parlare il suo personaggio. Arzak è ancora un guerriero solitario, ma anche un ispettore di una fantomatica organizzazione per cui è alla ricerca di una misteriosa anomalia. Sul pianeta Tassili, il mondo dei mille deserti, “cavalcando il suo infaticabile pterodelfo, egli viaggia senza tregua. Nulla sfugge al suo sguardo attento, le lucertole delle rocce, le distese di erba assassina.” E mentre meglio si delinea la sua figura, si apprende qualcosa di più anche sulla sua cavalcatura: miscuglio di circuiti antigravitazionali integrati e di funzioni biologiche autogeneranti, collegato telepaticamente al cervello del proprio cavaliere. La trama si irrobustisce e la strada di Arzak incrocia quella di una rivolta aliena tesa a riprendere possesso del pianeta Tassali, ma anche le esistenze di creature provenienti dai vari angoli dell’universo. Fantascienza mescolata a fantasy e a un pizzico di misticismo, ricetta tipica di un Moebius ormai al vertice della propria carriera e maggiormente equilibrato da un punto di vista grafico, grazie a un tratto maestoso che sa essere pulito e dettagliato al medesimo tempo, mentre con linee morbide delinea con apparente semplicità uomini e alieni, tute spaziali e abiti sensuali, interi mondi dalle pittoresche flora e fauna. In quelle tavole ricche di vignette e di un dono visionario in grado di fondere spunti, generi ed elementi in un cocktail perfettamente riuscito, anche i colori rivestono un ruolo importante, grazie a pagine nelle quali le scelte cromatiche puntano sulle infinite sfumature di una medesima tinta per rendere delle suggestioni. Così le pianure diventano oceani di verde, le notti sono popolate da blu intensi, gli interni di futuristiche e lussuose dimore di rossi caldi. Il potere evocativo delle immagini prende il sopravvento, avviluppa il lettore, che si ritrova immerso nel mondo di Arzak, ne respira le atmosfere, ne percepisce il calore, si smarrisce nella sua vastità. La lettura ha quasi un sapore onirico e ogni nuovo dettaglio è una piccola sorpresa. Chiuse le pagine di questo nuovo volume (edito in Francia nel 2010 e in Italia a fine 2012), comprendiamo che non conosceremo mai il finale della storia. Moebius è scomparso nel 2012 e, chissà, forse ora cavalca nei cieli della fantasia sul proprio pterodelfo. Arzak è rimasto orfano e ai lettori spetta il compito di immaginarsi gli sviluppi futuri e la conclusione della sua avventura. Ammesso che ne esista una…

lunedì 6 aprile 2015

I 30 ANNI DI CITY HUNTER


City Hunter, personaggio ben noto agli appassionati di manga e anime, compie 30 anni. Per celebrarlo, ecco un pezzo sulle produzioni che lo hanno visto protagonista.


Ryo, in arte City Hunter, è uno sweeper, uno “spazzino” professionista, solo che invece che dedicarsi alla spazzatura si occupa di malviventi, ladri, ricattatori, killer e ogni altro genere di rifiuto umano. Via di mezzo tra una guardia del corpo e un detective, è molto differente dai private eyes generalmente incontrati sulle pagine dei libri e sugli schermi cinematografici. Belloccio, vestito in modo elegante, atletico, abile con le armi da fuoco, inizialmente potrebbe apparire come lo sbirro (privato e non) perfetto, ma ben presto il velo delle apparenze è destinato a cadere. Così il simpatico protagonista si rivela essere anche spericolato, sboccato e costantemente eccitato. Il suo punto debole sono infatti le belle donne, generalmente sue clienti, che molesta mostrar senza il minimo ritegno. Fortunatamente, la sua gelosa assistente, Kaori, è pronta colpirlo con un enorme martello quando le avance verso la malcapitata di turno si fanno troppo sfrontate. 



IL MANGA 
Scritto e disegnato da Hojo Tsukasa, il manga City Hunter viene originariamente pubblicato sul settimanale Shonen Jump della Shueisha, dal numero 13 del 1985 al numero 50 del 1991, per poi essere raccolto in 35 tankobon. Con un bel tratto, morbido e ricco, l’autore crea dei piccoli gialli ricchi d’azione, in cui lo svolgimento della trama è importante quanto la caratterizzazione dei personaggi, del protagonista in particolare. Si scopre così che, oltre a molti difetti, Ryo possiede parecchie doti: è un abile tiratore, un esperto di arti marziali, un eccellente guidatore e un fine indagatore. Il suo passato è avvolto dal mistero, tanto che egli stesso sa poco dei propri genitori e della proria nascita. Tuttavia, è noto che da bambino è sopravvissuto a un incidente aereo nell'America Centrale, dove è cresciuto come un guerrigliero, poi si è trasferito negli Stati Uniti e infine in Giappone, nel quartiere di Shinjuku a Tokyo, ove svolge il proprio lavoro. Contraltare dell’esuberante Ryo è Makimura Kaori, la sua assistente, poco a suo agio con armi e indagini, ma assai abile nel tenere a freno i bassi istinti del proprio titolare/collega. Kaori, solo apparentemente poco femminile a causa dei modi bruschi e dell’abbigliamneto poco curato, in realtà è una bellezza un po’ acerba che, sotto sotto, è divorata dalla gelosia. La strana coppia formata da Ryo e Kaori è insomma uno dei punti di forza della serie, in grado di alleggerire le atmosfere drammatiche con riusciti battibecchi e ispirati siparietti comici.



LE SERIE TELEVISIVE 
City Hunter vanta un gran numero di adattamenti in animazione, sono infatti ben quattro le serie televisive che portano il medesimo titolo. Casa di produzione responsabile di tutti gli anime è la Sunrise che dal 1987 al 1991 sforna circa una serie televisiva all'anno. La prima conta 52 episodi, la seconda 62, la terza 13 e la quarta ancora 13, per un totale di ben 140 puntate. Le prime tre serie vengono genericamente indicate col titolo City Hunter (oppure come City Hunter 1, City Hunter 2, City Hunter 3), l'ultima è nota come City Hunter 91, dall'anno di uscita. L'anime, pur puntando su un pubblico relativamente adulto, smussa un po' degli eccessi del manga, ma non ne tradisce lo spirito. Gli anime utilizzano quindi i medesimi ingredienti del fumetto, dando vita a episodi che sono un misto di commedia e di giallo, conditi con tanta azione e un pizzico di umorismo. Un certo spazio è concesso anche ai personaggi di spalla già visti nel fumetto. Come Umibozu, erculeo collega di Ryo il cui vero nome è Ijuin Hayato. I due si sono conosciuti anni addietro, quando militavano su fronti opposti in qualità di mercenari. Col tempo sono diventati (quasi) amici, pur essendo molto diversi. Umibozu ha infatti una passione per le armi di grosso, anzi grossissimo calibro, mostra atteggiamenti costantemente minacciosi e, soprattutto, è intimidito dalle donne e terrorizzato dai gatti. Dopotutto, anche i mercenari hanno i loro punti deboli. 

I FILM IN ANIMAZIONE
Per quanto riguarda i lungometraggi, suddivisi tra film cinematografici e OAV, sono in totale sei e sono usciti tra il 1989 e il 1999. Quattro di loro portano la firma alla regia di Kodama Kenji, che si è occupato anche della prima serie televisiva. Naturalmente, a fronte di una maggiore lunghezza e di budget più elevati, i film presentano trame più complesse e un'animazione più curata rispetto alle serie televisive. La caratterizzazione del personaggio, rimane tuttavia una piacevole costante. Le danze si aprono nel 1989, con City Hunter: amore, destino e una 44 Magnum, nel quale Ryo è senza lavoro da ben 48 giorni, una condizione che viene interrotta dall’ingresso in scena di Nina, avvenente pianista in cerca di City Hunter per affidargli un incarico. Si prosegue con City Hunter: un complotto da un milione di dollari (del 1990), City Hunter: guerra al Bay City Hotel (del 1990), City Hunter: servizio segreto (del 1996), City Hunter: la rosa nera (del 1997) e infine City Hunter: arrestate Ryo Saeba (del 1999). In quest’ultimo, una volta tanto, Ryo è la preda invece che il cacciatore. Secondo le ultime informazioni della stampa, Asagiri Sayaka, uno dei volti più noti e amati del telegiornale sarebbe stata rapita da uno squilibrato, che la trascina per la città ammanettata a sé e la minaccia con un'arma da taglio. Una ripresa effettuata da telecamere satellitari identificherebbe Ryo quale responsabile di tale crimine. Si scatena quindi una caccia mediatica nei suoi confronti. Ma mettere nel sacco il detective donnaiolo non è cosa facile… 



IN CARNE E OSSA
Grazie alla sua grande popolarità, Saeba Ryo è stato protagonista anche di un film con attori in carne e ossa. Prodotto nel 1993 a Hong Kong, col semplice titolo City Hunter, questo lungometraggio è diretto da Wong Ching. Il ruolo di Ryo è affidato alla star asiatica Jackie Chan, mentre l'attrice Joey Wang impersona Kaori. Oltre agli elementi classici del manga: umorismo, azione e belle ragazze, il film vanta quale ingrediente aggiuntivo moltissime scene di arti marziali, specialità di Jackie Chan che lo ha reso famoso in tutto il mondo. La storia vede Ryo alla ricerca di una ragazza scomparsa nella città di Hong Kong, tradizionale campo d’azione dell’attore. Pur essendo di statura più bassa del Ryo cartaceo e non potendo vantare dei tratti somatici altrettanto belli, Chan è l’ideale per portare in scena la doppia anima di Ryo, detective e donnaiolo.

LE ARMI DI RYO
Tra le peculiarità del manga City Hunter va segnalata la grade cura nella realizzazione delle armi. Hojo Tsukasa, che ama farsi fotografare in pose da “duro”, con occhiali a specchio e giubbotto in pelle, maneggia le armi con la stessa destrezza con cui le porta sulla carta. Si segnala in particolare la Phyton di Ryo, praticamente inseparabile dal detective. Per realizzarla Hojo si affida a un modello in scala reale che tiene sul tavolo da disegno, e per colorarla invece del nero preferisce i colori del gruppo dei blu, cioè il viola scuro e i vari blu. Ma anche le altre armi che appaiono nei vari episodi sono frutto di un attento studio di modelli in scala 1:1, che Hojo smonta, rimonta, analizza in dettaglio e solo alla fine è pronto a riprodurre con la matita. Si tratta di uno dei tanti esempi della cura e professionalità con cui il famoso mangaka affronta la realizzazione della propria opera, ma anche di un punto di contatto col suo personaggio, una dimostrazione pratica di come, in un character di fantasia, confluiscano anche elementi presi dalla realtà. A questo punto, speriamo che le somiglianze tra Tsukasa e Ryo si limitino alla conoscenza delle armi da fuoco. 

Per le immagini del manga © Tsukasa Hojo
Per le immagini dell’anime. © Tsukasa Hojo/Shueisha, Inc./Sunrise 

Per le immagini del film live action © Star TV Filmed Entertainment Limited